mercoledì 25 settembre 2013

La collettivizzazione dell'agricoltura - seconda parte


Un manifesto invita i contadini a iscriversi al partito comunista.
Un manifesto del 1932 invita i contadini
a iscriversi al Partito.
Con questo secondo post si conclude l'analisi della statalizzazione dell'agricoltura sovietica. Chi si fosse perso il precedente, può iniziare a leggere da La collettivizzazione dell'agricoltura - prima parte. Il post di oggi parte da dove si interrompeva il primo, con il marzo del 1930: le sommosse contadine, reazione al tentativo di statalizzazione, spingono il governo di Stalin a fare una parziale marcia indietro. Ecco cosa successe in seguito e come si definì per conseguenza il mondo contadino sovietico, fino alla caduta dell'URSS.


Sempre nel mese di marzo fu elaborato lo statuto modello per i colcos nel quale fece la comparsa il sistema dei “giorni di lavoro” (trudoden), destinato a regolare per decenni i compensi dei membri delle fattorie collettive. Si trattava di una sorta di cottimo in natura usato per imporre ai contadini la nuova servitù sulle terre del nuovo signore. La ritirata strategica, resa necessaria anche dalla grave crisi finanziaria che colpì l'URSS a causa dell’errata riforma del credito varata nel 1929, poté essere interrotta verso la fine dell'anno, quando fu evidente l'entità del raccolto. Ai contadini vennero sottratte senza nessun corrispettivo 22 milioni di tonnellate di grano, cinque delle quali vennero esportate per ottenere credito per l'industrializzazione.


Il 1931 fu quindi un anno di svolta. Ai contadini furono prospettate due opzioni: o unirsi ai colcos oppure abbandonare le campagne. Il regime, bisognoso di manodopera a basso costo per l'industria, aveva trovato un modo peculiare per "deruralizzare" la società sovietica. Delle 23 milioni di persone che si trasferirono dalle campagne alle città tra il 1926 e il 1939, ben 4 milioni lo fecero nel 1931. 

In questo anno venne anche realizzata la prima “semina bolscevica”, vale a dire la prima semina colcosiana. I contadini, che odiavano la nuova servitù, lavorarono mal volentieri la terra del nuovo padrone. Il raccolto del 1931 fu di un 20 percento inferiore a quello dell'anno precedente e lo stato si impadronì senza fatica di un buon 35-40%.



La carestia e la sconfitta dello strato contadino


Nelle campagne, vessate ormai dal 1928, cominciarono a manifestarsi le conseguenze tragiche delle politiche del regime. Lo strato contadino più abile era stato eliminato, gran parte del patrimonio zootecnico era andato perso, le scorte esistenti erano state saccheggiate e le nuove fattorie collettive presentavano scarsa vitalità economico-produttiva. La nuova offensiva del regime in termini di prelievi non si arrestò nemmeno davanti ai primi sintomi della tragedia. L'inflessibile ritornello staliniano recitava: “prima i contadini soddisferanno gli interessi dello Stato e dopo potranno badare ai loro”. I contadini, consapevoli che dopo aver soddisfatto “gli interessi dello Stato” avrebbero fatto la fame, attuarono all'interno dei colcos forme di resistenza passiva. La semina del 1932 fu un autentico disastro.

Il termine carestia (golod) cominciò a circolare nelle lettere che i dirigenti locali inviavano a Mosca dalle zone cerealicole nelle quali lo Stato concentrava gli ammassi (Ucraina, Kazakistan, Basso Volga, Caucaso settentrionale). Questi dirigenti chiesero misure atte a salvare la vita ai propri cittadini ma Stalin fu di tutt'altro avviso. Egli non inviò aiuti (nonostante le scorte ammontassero a un milione e ottocentomila tonnellate) perché la carestia e la fame, indebolendo i contadini come forza politica, ne avrebbero spezzato le ultime resistenze. 

Il 7 agosto 1932 fu varato il famigerato decreto sulla “difesa della proprietà statale contro il furto campestre”, che prevedeva la pena di morte per coloro che si fossero impossessati di pochi chicchi di grano. Gran parte del raccolto del 1932, che fu di poco inferiore a quello dell'anno precedente, venne lasciato a marcire nei campi. Gli ammassi dunque fallirono e il mancato arrivo del grano aggravò la crisi della bilancia dei pagamenti. Le esportazioni crollarono e con esse l'accesso al credito. La produzione industriale rischiò la paralisi e il pagamento dei salari subì forti ritardi.

Dopo le campagne anche le città, il santuario del regime, erano sull'orlo della catastrofe. La carenza di generi alimentari si fece acutissima proprio quando vennero alzate le norme di produzione imposte agli operai. Il regime reagì a questa crisi potenzialmente fatale per la sua sopravvivenza indurendo la repressione già oltremodo spietata. Gli esodi rurali, attraverso i quali centinai di migliaia di disperati cercavano di sfuggire alla fame, furono bloccati dall'OGPU con posti di blocco attorno alle città. Il regime cercava di impedire che la rabbia operaia e la disperazione contadina si fondessero, ma impose queste misure crudeli soprattutto per insegnare ai contadini la sottomissione economica e rendere chiaro loro che l'alternativa al lavoro nelle terre collettive sarebbe stata la morte per fame. La carestia raggiunse il picco nell'estate del 1933.

Le stime che gli storici hanno fornito sul numero delle perdite umane causate da dekulakizzazione, collettivizzazione e carestie variano di molto, tuttavia quelle più recenti convergono sui 5-6 milioni di vittime. I contadini dovettero arrendersi e riconoscere che la spietatezza del regime era di gran lunga superiore alla loro capacità di resistenza. Solo davanti ai segnali di questa resa il governo approvò l’invio ai colcos di 1,3 milioni di semi e di 300.000 tonnellate di aiuti alimentari. Malgrado piccole resistenze e piccoli conflitti continuassero a manifestarsi, il regime riuscì a realizzare il suo sogno: prendere dalle campagne quanto voleva senza corrispondere ai contadini “l’equivalente del loro lavoro”.

La necessità da parte del regime di rimuovere dalla memoria collettiva lutti cosi devastanti produsse ulteriori sofferenze. Per lunghi decenni fu impossibile rielaborare quanto accaduto. Stalin, per proteggere il regime dalla perdita di legittimazione, elaborò due miti: uno ad uso esterno (per la generalità della popolazione) e uno ad uso interno (per un apparato non del tutto allineato in favore delle brutalità commesse). Il primo mirava a far ricadere la responsabilità delle carestie sui sabotatori rurali, speculatori e accaparratori di vario tipo. Il secondo mirava ad accusare i quadri locali di esagerazione e sensazionalismo prossimi al sabotaggio relativamente all'entità delle carestie. Ben presto fu proibito parlare della carestia in riunioni e pubblicazioni. 



Appezzamento privato, ammasso del grano e giornate di lavoro. Il compromesso fra Stato e contadini


Un manifesto del '31 dichiara che l'agricoltura sovietica è la più solida della terra.
Un manifesto del 1931 afferma perentorio
che grazie alle fattorie collettive e a quelle
statali l'agricoltura sovietica è la più
produttiva della terra.
Nel 1935 il numero delle famiglie contadine collettivizzate raggiunse il 90 percento e lo Stato prelevava ormai senza fatica il 40 percento del raccolto. La nuova servitù, così crudelmente imposta, si basava su tre obblighi:
  • il lavoro nei campi collettivi (180 trudoden annuali per adulto);
  • le corvée per gli ammassi di legno e torba (100 giorni all'anno per lavoratore);
  • la costruzione e il mantenimento delle strade (6 giorni all'anno).

Il nuovo sistema consentì una certa fornitura di beni a basso costo allo Stato, ma col tempo procurò un calo strutturale della produttività. La resa per ettaro raramente superò gli 8 quintali di grano. 

La normalizzazione politica delle campagne avvenne nel febbraio 1935 al Congresso dei colcosiani. Il regime vi approvò lo statuto modello del colcos e, cosa assai determinante per gli sviluppi futuri dell’agricoltura sovietica, decise di dividere in due parti tutte le terre non occupate dai sovcos (aziende agricole di Stato). Il 90 percento di esse andò ai colcos per essere coltivate in forma collettiva. Il restante 10 percento andò ai colcosiani, sotto forma di appezzamento privato (circa mezzo ettaro a famiglia). 

L’importanza di questo compromesso tra regime e contadini fu notevole. La sua istituzione dimostra che il regime si convinse che la sola coercizione non poteva bastare a spingere il contadino a essere produttivo e che per questo motivo si doveva rassegnare alla sopravvivenza di un'oasi di proprietà privata dentro l'economia socialista.

Il lascito delle carestie e della collettivizzazione è un tema che in questo studio riveste particolare importanza. L’impatto psicologico che ebbe sui contadini (ma anche, come vedremo, sugli operai) fu duraturo e di lungo periodo e aiuta a comprendere i fallimenti delle riforme kruscioviane. 

I contadini si chiusero dentro ai colcos e preservarono in forme nuove le mentalità e i modi di vivere tradizionali. La minaccia della fame e della deportazione spinse il contadino a considerare il regime e il suo padrone autorità alle quali era impossibile disubbidire in termini generali ma alle quali si poteva negare la collaborazione quotidiana in termini di cure e produttività nel lavoro dei campi collettivi. Questo atteggiamento si cronicizzerà e mostrerà i suoi lati deteriori proprio quando la scomparsa del despota e le riforme lo renderanno meno pericoloso che in passato.

Il compromesso sull'appezzamento individuale permise allo Stato di essere regolarmente rifornito e alle famiglie contadine di ricominciare a nutrirsi in maniera decente ma diede all'agricoltura sovietica basi fragili: le due sfere, quella collettiva e quella privata, erano destinate all'atrofia perché regolate da interessi contrapposti. Lo Stato faceva il possibile per distogliere il contadino dalla cura dell’appezzamento privato mentre il contadino faceva quanto in suo potere per lavorare il meno possibile nei campi collettivi. La risoluzione delle contraddizioni, prodotte nel lungo periodo da tale divaricazione, rappresentò la massima sfida del riformismo sovietico post-staliniano.

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