mercoledì 4 settembre 2013

La collettivizzazione dell'agricoltura - prima parte


"Impegnatevi per la ricostruzione dell'agricoltura" manifesto sovietico del 1932.

Stalinismo e mondo contadino: sostanza, esiti e deformazioni di una visione primitiva dell’economia.


La caduta del regime zarista e la Rivoluzione d'Ottobre misero il partito bolscevico a capo di un paese arretrato e agricolo, dove i contadini rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione. Questa massa contadina si poneva come un ostacolo sulla via della realizzazione del socialismo: come integrare le sue rivendicazioni antifeudali con la dottrina marxista e la necessità di industrializzare forzatamente un paese?

Questo primo post introduce l'argomento della collettivizzazione dell'agricoltura sovietica: il mondo contadino di fronte alla modernità, la dirigenza bolscevica di fronte al tradizionalismo.



I contadini di fronte alla Rivoluzione: rivendicazioni e tradizionalismo


La natura contraddittoria della Rivoluzione d’Ottobre, già menzionata nell'introduzione, risedette nel fatto che sopraggiunse in una nazione agricola dove il proletariato industriale rappresentava poco più del 3% della popolazione mentre la classe contadina ne rappresentava almeno l’85%. Anche se Lenin si sforzò di elaborare una strategia capace di provvedere all'inserimento delle rivendicazioni contadine nel programma bolscevico, fu subito evidente che nell'immediato la classe contadina era economicamente, socialmente e politicamente in flagrante contraddizione con le premesse e la realtà della rivoluzione.

Nel 1917 in Russia avvennero due rivoluzioni: una socialista nelle città e una borghese e antifeudale nelle campagne. Queste due rivoluzioni comportarono quindi rivendicazioni diverse e in fondo contrapposte. Tuttavia la rivoluzione nel suo complesso rimise in moto il mondo contadino, consolidandone la coesione in quanto comunità e accentuandone i tratti tradizionalisti e conservatori.

Tale atteggiamento fu, in parte considerevole, il frutto delle modalità con le quali i contadini reagirono all'incertezza dei tempi, alla rivoluzione, agli eccessi della guerra civile e del “comunismo di guerra”. I contadini dimostrarono una grande capacità di adattamento alle nuove condizioni imposte dallo stato e dalle città. Dopo i drammatici eventi dei primi anni '20 le campagne russe non erano più un mondo isolato e avulso dal resto del paese. Milioni di contadini tornarono nei loro villaggi introducendovi idee nuove e mentalità più aperte. Si trattò soprattutto di giovani reduci e di contadini-operai, legati alla terra dei padri ma affascinati dai fermenti ideologici dell’epoca. Molti di loro rappresentarono gli unici punti di riferimento per i comunisti nelle campagne, attraverso i quali iniziare un processo di penetrazione ideologica, di socializzazione e di indottrinamento.

Tuttavia il mondo contadino restò maggioritariamente ostile alle idee collettiviste. Il contadino benestante desiderava coltivare il suo appezzamento in totale autonomia dalle direttive amministrative di istituzioni statali. Così il partito bolscevico agli inizi degli anni 20 poteva contare solo su 20.878 cellule rurali che raggruppavano 264.000 militanti, vale a dire meno dello 0,5% della popolazione rurale. 




La socializzazione dell'agricoltura: il ripensamento della NEP e la violenza staliniana


La socializzazione dei mezzi di produzione proseguì timidamente per tutti gli anni '20 e nel 1928 il settore agricolo sovietizzato copriva un misero 0,7% della superficie agricola coltivata. Il regime, che con il varo della NEP rinunciò a proseguire contro le campagne la politica di requisizioni su larga scala, dovette fare i conti con una situazione agricola assai problematica. I contadini mostrarono di preferire il commercio privato piuttosto che vendere i loro prodotti allo Stato in quanto in tal modo ne ricavavano maggior profitto. Nel dicembre 1927 il ribasso dei prezzi agli ammassi statali provocò una diminuzione del 30% degli ammassi stessi rispetto al dicembre 1926.

Il 1928 si aprì dunque all'insegna delle difficoltà nei rifornimenti e della penuria di generi alimentari nelle città. Il comunista jugoslavo Ciliga, nel ricordare l’autunno 1927 a Mosca, menziona la penuria di burro e formaggio e le difficoltà nell'approvvigionamento di pane. Stalin decise quindi di rompere gli indugi e di muovere contro le campagne una nuova e decisiva guerra per costringere i contadini ad uno scambio ineguale con lo Stato. 

Il 5 gennaio 1928 l'Ufficio politico del partito bolscevico emise una direttiva sugli ammassi nella quale si chiedeva di applicare subito “misure severe” per estrarre dalle campagne quanto dovuto e di riservare particolari misure repressive contro kulak (contadini agiati) e speculatori. Il 14 gennaio Stalin specificò in un documento la necessità di imprimere una “pressione feroce” verso le organizzazioni di partito affinché realizzassero gli ammassi con le nuove misure coercitive. Queste furono inserite con l'art. 107 del codice penale sovietico e comportavano la confisca parziale o integrale della proprietà per mancata consegna di grano allo Stato. 

30.000 militanti del partito applicarono queste direttive con violenza. Nel primo trimestre del 1928 gli ammassi superarono del 75% quelli del primo trimestre del 1927. In virtù di questi risultati Stalin si convinse che la strada intrapresa fosse quella giusta. Fin dal principio le sue convinzioni si nutrirono di tre miti.
  • Il mito del kulak, il contadino agiato sovietico. Secondo la direzione statistica sovietica le famiglie kulak nel 1927 superavano di poco il 3% del totale. L’esiguità del dato consente di capire che in realtà l’offensiva del governo contro le campagne non fu indirizzata contro una minoranza di contadini ricchi ma contro la maggioranza dei contadini medi (il 70,7%). Il kulak fu accusato dalla propaganda di essere colpevole di ogni male. Tuttavia anche illustri bolscevichi ammisero l’esiguità del fenomeno e definirono il kulak “uno spauracchio, un fantasma del vecchio mondo zarista”.
  • Il mito del colcos, l’azienda agricola collettiva, che avrebbe dovuto assicurare una maggiore produttività. Nel 1927 ve ne erano in tutto il paese solo 18.000  e nonostante i privilegi concessi dallo Stato versavano in uno stato di abbandono ed erano disprezzate dai contadini. 
  • Il mito del “nemico di classe interno”, ausiliario di quello esterno, sull'uso del quale si poteva contare ogni qualvolta servisse un capro espiatorio per giustificare gli errori del regime, legittimarne gli eccessi o disfarsi delle opposizioni interne al partito.

Con la sua linea Stalin confermò la sua idea “primitiva” di economia in virtù della quale, come in politica, al vantaggio di uno (lo Stato) dovesse corrispondere il sacrificio di qualcun altro (il contadino sovietico).

Dopo una ritirata strategica nell'estate del 1928, utile agli stalinisti per regolare i conti con la “destra” del partito che non condivideva la nuova politica, anche il 1929 si aprì all'insegna delle requisizioni violente di grano. I contadini risposero con la riduzione delle semine. Il crollo della produzione agricola fece precipitare la situazione alimentare nelle città. Il governo estese il razionamento a tutto il paese escludendo però i contadini. Con tale decisione il regime dimostrò di non considerarli cittadini e di non ritenersi responsabile della loro sopravvivenza. Mentre i distaccamenti di ammassatori portavano via dalle campagne 11 milioni di tonnellate di grano (il 15% del raccolto ), al contadino venne negato l’accesso al pane.

Nel giugno 1929 vennero create le Stazioni di macchine e trattori (MTS), che ebbero il compito di meccanizzare l’agricoltura. Dietro questo impulso modernista si possono comunque scorgere gli intendimenti predatori del regime nei confronti delle campagne. Le MTS divennero presto gli occhi e le orecchie del partito dato che la loro attività permetteva di sapere quanto era e dove si trovava il grano disponibile. 

Il 1929 si chiuse con la vittoria dello Stato nella guerra degli ammassi. Il 22,5% del raccolto (inferiore del 12-14% rispetto agli anni della NEP) fu confiscato con inaudite violenze.



L'eliminazione dei kulak


Un manifesto del 1933 contro i nemici di classe.
Un manifesto del 1933 incita alla lotta
contro i nemici di classe.
Sull'onda di questi risultati, consapevole che dopo quanto era stato fatto loro i contadini si sarebbero rifiutati di seminare, Stalin decise di chiudere la partita concentrando i nuclei familiari contadini dentro le fattorie collettive. In questo modo il despota poté camuffare l’aspetto “feudale” dell’estrazione cerealicola con la forma sociale e collettiva del tipo di proprietà agricola.

Lo Stato era ben consapevole che un simile provvedimento avrebbe scatenato una sollevazione contadina di massa e si mosse preventivamente per eliminare quei gruppi che avrebbero potuto guidare la resistenza. Il 30 gennaio 1930, in una risoluzione segreta, l’Ufficio politico approvò la “liquidazione dei kulak in quanto classe”. Questa “classe” venne suddivisa in tre categorie, ordinate in base al grado di “criminosità”, alle quali corrispondevano specifici provvedimenti repressivi, che andavano dalla fucilazione sul posto alla deportazione (nelle regioni siberiane nei casi più gravi, nella regione di appartenenza in quelli meno gravi).

Per attuare le direttive vennero inviati nelle campagne centinaia di migliaia di quadri, sostenuti dall’OGPU e dalle milizie, nonché da bande di criminali comuni, liberi di razziare e violentare. La liquidazione dei kulak mise in luce le caratteristiche tipiche delle azioni repressive staliniane:
  • individuazione di una categoria nemica da colpire, mal definita ma significativa;
  • assegnazione alle organizzazioni periferiche di quote numeriche, dilatabili in loco, relative agli individui da reprimere;
  • innesco di eccessi di violenza e di un caos reale che moltiplicavano vertiginosamente le perdite di vite umane;
  • possibilità per il regime di esercitare un controllo di ultima istanza e di fermare quanto iniziato per far tornare lentamente la calma.

La “dekulakizzazione“ costò, tra fucilati e morti nelle deportazioni, mezzo milione di vite. Ingente fu la moria di bambini, anello debole di una catena che venne ridotta in frantumi. Il bilancio in termini economici fu disastroso in quanto i costi delle devastazioni furono assai maggiori del valore complessivo delle risorse requisite.



La reazione contadina alla collettivizzazione forzata


In parallelo alla liquidazione dei kulak fu portata avanti l’opera di collettivizzazione. Il picco del fenomeno fu raggiunto nel febbraio 1930. I contadini che si rifiutarono di cedere risorse e mezzi e di trasferirsi nei colcos vennero brutalmente vessati. Gli apparati repressivi giunsero a minacciare fucilazioni di massa.

Dopo un iniziale sbandamento il mondo contadino cominciò a reagire compatto all'aggressione subita. I contadini, pur di non consegnare il bestiame ai colcos, abbatterono un ottavo delle mucche da latte, un terzo delle pecore, il 40 percento dei maiali e un settimo dei cavalli. Nel 1930 l’OGPU registrò lo scoppio di 13.754 agitazioni contadine. Nelle campagne ucraine le rivolte annullarono per qualche settimana il potere sovietico, fornendo a Stalin la conferma che il mondo contadino era il retroterra naturale del nazionalismo anti-russo e quindi anti-sovietico. 

Le rivendicazioni contadine, assai significative, furono le seguenti:
  • restituzione dei beni requisiti e confiscati;
  • ritorno dei deportati;
  • scioglimento della gioventù comunista, considerata un'organizzazione di provocazione anti-contadina;
  • rispetto della libertà religiosa (dekulakizzazione e collettivizzazione furono accompagnate dalla repressione delle organizzazioni religiose);
  • libere elezioni dei soviet di villaggio;
  • abolizione delle requisizioni e libertà di commercio.

Il 2 marzo 1930 Stalin, preoccupato per un possibile intervento polacco in Ucraina, suonò la ritirata. Fece pubblicare sulla Pravda l’articolo “Vertigini da successo” nel quale ordinava la cessazione di eccessi e violenze, scaricandone la responsabilità sui quadri inferiori. Progressivamente la situazione si normalizzò. La ritirata provocò parecchi mal di pancia nel partito perché i militanti, che obbedirono con sadico zelo alle direttive del padrone, si sentirono traditi. Nove milioni di famiglie contadine lasciarono i colcos ma il regime riuscì a conseguire risultati politicamente significativi: l'élite contadina fu spazzata via e il 23,6% dei nuclei familiari fu collettivizzato.




3 commenti:

  1. Bell'articolo indubbiamente la violenza non servì a rendere più produttiva l'agricoltura Sovietica, che comunque ha sempre sofferto per la scarsa produttività: gli orti privati erano ben più produttivi dei terreni collettivizzati. La violenza ha sicuramente esarcerbato la diffidenza dei contadini nei confronti della rivoluzione. Gran parte delle derrate sequestrate servirono ad acquistare macchinari per l'industralizzazione a tappe forzate di quegli anni. Purtroppo l'industrializzazione la pagano sempre i più deboli come anche il caso sovietico dimostra.

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    1. Un po' come dire che si è dovuta accelerare - in pochi anni - un'accumulazione primitiva che aveva latitato per secoli. E in pochi anni una cosa del genere si può fare in un modo soltanto...

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    2. Grazie compagni per il contributo, è un onore fare questo viaggio nella storia insieme a voi.

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