La vittoria del 1945 ridisegnò i confini e gli elementi della storia sovietica. Agli occhi della popolazione le basi socio-economiche dello Stato ne uscirono rafforzate e legittimate. Esse tuttavia conservavano le contraddizioni già analizzate nei post sull'agricoltura e sull'industria. Oltremodo rafforzata ne uscì la posizione della massima autorità del regime e del partito.
Dal punto di vista politico l'impatto della vittoria consacrò la figura di Stalin come leader infallibile e favorì la parziale rimozione dei traumi e delle sofferenze che le politiche staliniane avevano inflitto alla popolazione. Questa era quindi pronta a tendere la mano al regime e respirava a pieni polmoni una fresca aria di libertaria speranza. Nel dopoguerra, intervistando migliaia di profughi sovietici per l'Harvard Project on the Soviet Social System, Bauer e Inkeles giunsero alla conclusione che i cittadini accettavano il sistema ma rigettavano il regime.
Tutti approvavano l'idea della proprietà statale dei mezzi di produzione della grande industria e del piano economico per gestirla, la legislazione sociale e le teorie di eguaglianza tra razze e nazioni. Tuttavia mostrarono un odio profondo verso il sistema colcosiano e verso la polizia politica e suggerirono la liberalizzazione della piccola proprietà privata contadina, l'introduzione del libero commercio e della libertà religiosa. Gli studiosi individuarono anche una relazione significativa tra livello di età e di istruzione e fiducia nel regime.
Le persone più anziane che avevano vissuto i traumi della “grande svolta” del 1928-1934 erano più pessimiste mentre la gioventù mostrava più entusiasmo, favorito anche dall'esperienza della guerra. I giovani che combatterono al fronte furono animati da uno spirito rigeneratore, erano maturati più in fretta e impararono a coltivare le proprie opinioni con audace autonomia di giudizio. Tuttavia molti di loro furono anche addestrati all'obbedienza cieca e corrotti dalle promozioni che il regime diffondeva tra i frontoviki (i reduci del fronte).
Vittoria: ma che genere di vittoria?
La vittoria non era solo del popolo ma anche di Stalin e questi ne dava un'interpretazione assai diversa. Nella mente del tiranno essa fu il risultato di una linea generale che comprendeva anche le misure repressive e la collettivizzazione dell'agricoltura, oltre che del suo genio militare. Il piano sul quale si reggevano le speranze del 1945 era dunque inclinato e carico di contraddizioni. La vittoria, insomma, “nutrì al tempo stesso lo spirito di libertà e gli strumenti psicologici che ne repressero lo sviluppo, perpetuando la supremazia del suo presunto architetto” (Alekseeva).
L'architetto non aveva nessuna intenzione di modificare la propria linea generale e si apprestava a normalizzare i facili entusiasmi con le solite rozze maniere. Tutte le categorie di cittadini sovietici che tra il 1941 e il 1945 varcarono le frontiere sovietiche conobbero le condizioni di vita nel mondo esterno e poterono confrontarle con quelle del loro paese di provenienza. Lo shock causato dalla netta superiorità del tenore di vita dei popoli “esterni” rispetto allo standard sovietico fu enorme e smentiva l'annosa propaganda sovietica sulle terribili condizioni degli operai occidentali. Il regime non stette a guardare e si apprestò a correre ai ripari.
Al termine della guerra c'erano più di 5 milioni di cittadini sovietici in Germania e negli altri paesi europei (prigionieri di guerra, operai e contadini deportati in Germania, fuggiaschi di varie entità). Costoro furono “filtrati” da una durissima repressione e molti di essi transitarono direttamente dall'universo concentrazionario hitleriano a quello staliniano.
Inoltre negli accordi di Jalta fu previsto il rimpatrio selettivo di determinate categorie di cittadini ma il rimpatrio forzato di qualsiasi cittadino sovietico che si trovasse in occidente durante la guerra rivelava l'uso strumentale di tali provvedimenti: impedire la nascita di una nuova emigrazione politica e al contempo liquidare o disgregare quella vecchia. Americani, Inglesi e Francesi consegnarono alle autorità sovietiche 2.272.000 cittadini sovietici o “parificati” ad essi. In base alle comunicazioni ufficiali della direzione centrale sovietica sulle questioni del rimpatrio, alla data del 1° Gennaio 1953 erano tornati in URSS 5.457.856 cittadini sovietici. Il triste destino di molti di coloro che combatterono contro i nazisti e furono catturati nei primi mesi di guerra amplificò la “sindrome da vittoria rubata” nella popolazione e strozzò in gola le flebili invocazioni di cambiamento.
Squilibri demografici ed economi: il portato dell'invasione
I danni subiti dall'URSS durante la guerra furono notevoli e possono essere riassunti in alcuni dati fondamentali:
- cinque anni dopo la fine della guerra la popolazione sovietica era stimata in 178,5 milioni di unità, ben 15,6 milioni in meno rispetto al 1939;
- la scomparsa di interi gruppi di età tra la popolazione maschile contribuì, insieme alle pessime condizioni di vita, alla diminuzione del tasso di natalità;
- secondo le fonti sovietiche ufficiali furono state distrutte, in tutto o in parte, 1710 città, più di 70.000 paesi o villaggi, circa 32.000 imprese industriali, 65.000 chilometri di rete ferroviaria
La vittoria a Stalingrado, un soldato sventola la bandiera rossa. Le città sovietiche, contese casa per casa, erano in macerie. |
Il 4 settembre 1945 il Comitato di Difesa di Stato, che aveva guidato il paese durante il conflitto, venne soppresso e i suoi poteri furono trasmessi al Consiglio dei commissari del popolo (Sovnarkom). Nel dicembre dello stesso anno vennero stabiliti prezzi unici per le merci in sostituzione del sistema del doppio prezzo, quello commerciale e quello delle tessere di razionamento. Il conseguente rincaro dei prodotti essenziali per la popolazione fu notevole. Sempre alla fine del 1947 si procedette ad una riforma monetaria che consistette nel modificare il valore nominale del rublo. Con 10 vecchi rubli si poteva acquistare un rublo nuovo. La riforma punì in particolar modo chi deteneva grosse somme di denaro in casa e meno chi possedeva libretti di risparmio. I risultati furono positivi in quanto fu frenata la spirale inflazionistica e i prezzi furono più realisticamente allineati alle scarsità relative di merci.
L'impetuoso sviluppo industriale del secondo dopo-guerra poggiava sul vizio classico del sistema sovietico: risolvere i problemi economici e produttivi dal centro e calare dall'alto decisioni riservate a luoghi lontanissimi, senza tenerne in considerazione le specificità. Inoltre la rete distributiva di rifornimenti e semi-lavorati, essenziale per il funzionamento efficiente del sistema, era diretta secondo criteri rigidamente burocratici.
Un'altra tara del sistema era il raggiro: i dirigenti delle imprese avevano paura di dire la verità sui problemi della produzione e preferivano inviare rapporti trionfalistici sui risultati raggiunti e ricorrere ad una infinità di sotterfugi per non finire nelle liste dei “ritardatari”. Con il tempo la menzogna diventò una prassi e la trasparenza e la certezza della fondatezza dei dati, essenziali per individuare e raddrizzare le storture, venne meno. Una delle conseguenze meno evidenziate e più trascurate del centralismo burocratico fu il dissesto ambientale. Ampie zone del paese furono modificate e degradate. La costruzione di canali, di laghi artificiali e di industrie venne realizzata senza tenere conto delle esigenze del territorio e della tutela di flora e fauna.
La condizione della famiglia sovietica nel secondo dopo-guerra comprendeva numerose criticità. Il terrore degli anni trenta aveva scosso le fondamenta della famiglia urbana. Le privazioni della guerra sconvolsero quelle della famiglie rurale. La morte di milioni di maschi comportò la comparsa di numerosi nuclei familiari nei quali fu la donna a doversi far carico di tutte le necessità della prole. Gli sforzi dello Stato per costruire asili nido si rivelarono insufficienti specie nelle campagne. Stalin nel 1944 decise di introdurre una legge sulla famiglia meno permissiva e più “tradizionale” in virtù della quale si riconobbero solo i matrimoni registrati nello stato civile, si disincentivò il divorzio e vennero stanziati contributi per le ragazze madri e per le famiglie più numerose.
Questa svolta “reazionaria” si può spiegare con (e allo stesso tempo ci spiega) la natura e le esigenze dello Stato sovietico stalinista: una legislazione familiare di stampo “marxista” fatta di matrimoni non registrati e di libero amore cozzava con i compiti e la prassi di uno Stato che limitava fortemente la libera circolazione dei cittadini tramite i passaporti interni e che desiderava instradare al conformismo sovietico i nascituri fin dalla culla. Invece un nucleo familiare stabile e riconoscibile era più consono all'esigenza di controllare e sorvegliare la popolazione.
Nel 1947 una zona considerevole della parte Europea del paese fu attraversata dalla carestia. La calamità giunse in una terra già provata dall'invasione tedesca e dalle confische del governo centrale sovietico. Nel 1946 il contadini dovettero consegnare al governo 7,2 milioni di tonnellate di cereali per rispettare gli obblighi imposti dal piano. Tale cifra, totalmente arbitraria, non contribuì di certo ad alleviare il bisogno di sementi per il raccolto successivo. Numerose lettere con richieste di aiuto giunsero fino all'allora segretario ucraino Nikita Chruščёv. Questi, dopo numerose esitazioni, si rivolse direttamente a Stalin per chiedere il permesso di introdurre il razionamento nelle zone colpite e trattenere i generi alimentari necessari per fronteggiare l’emergenza. Ma il despota rifiutò adirato e Chruščёv cadde temporaneamente in disgrazia. La carestia si portò via 1 milione di persone.
Industria e agricoltura nel dopoguerra: il tenore di vita sovietico
I primi anni del dopo-guerra furono un periodo di significativi cambiamenti per la società sovietica, soprattutto nei paesi baltici, nell'Ucraina, nella Bielorussia e nella Russia europea. In questi territori, nei quali più profonda e crudele era stata la penetrazione nazista, si procedette con la collettivizzazione forzata e con l'industrializzazione accelerata dell’economia. La ristrutturazione nelle campagne venne accompagnata da massicce deportazioni di elementi considerati ostili. Nei paesi baltici i contadini resistettero lungamente alla costituzione dei colcos. In Estonia nel 1949 il 30 percento di essi era ancora legato alla proprietà individuale della terra. I gruppi di resistenti in armi che si costituirono in Lituania furono liquidati solo nel 1952.
La ricostruzione del tessuto industriale fu rapidissima. Nel 1948 il livello di industrializzazione delle repubbliche baltiche era superiore a quello pre-bellico. La composizione etnica delle repubbliche ne risultò sconvolta in quanto numerose famiglie russe e ucraine vi vennero insediate. I baltici, che sovente si vedevano scavalcati nelle professioni e nelle competenze, vissero con sofferenza questa immigrazione e ciò può aiutarci a comprendere la natura anti-russa dell'odio covato contro il potere sovietico.
Un contributo non secondario alle trasformazioni sociali venne dalla smobilitazione dell'esercito e dalla fuga dalle campagne che perdevano in media due milioni di abitanti ogni anno. I soldati smobilitati di origine contadina restavano nelle città per cercare lavoro nelle nuove fabbriche. Nonostante gli sforzi del regime nel riconvertire la produzione bellica in trattori e macchinari agricoli, la condizione dell'agricoltura sovietica restava assai critica. Nonostante il 16 percento degli stanziamenti del piano fossero dedicati al comparto agricolo la produzione di cereali faticava a raggiungere i livelli pre-rivoluzionari.
La legalità nelle campagne inoltre segnava il passo. Tra il 1947 e il 1949 si scoprì che circa 6 milioni di ettari di terre colcosiane erano stati sfruttati illegalmente dai quadri dirigenti, responsabili locali e funzionari di partito di vario livello. L'esistenza contadina veniva, insomma, ulteriormente gravata da tributi in natura, illegalmente pretesi da un sottobosco di arrivisti e approfittatori.
Il plenum del CC del PCUS del febbraio 1947 impose un ulteriore giro di vite alle campagne. I colcos vennero privati non più soltanto del diritto di decidere le quantità della semina ma anche quello di scegliere che cosa coltivare. La paga delle giornate lavorative dei contadini (trudoden) poté essere stabilita solo dopo la consegna allo Stato delle quote fissate e dopo l'accantonamento per la semina. Le quote da consegnare al centro venivano decise arbitrariamente e dovevano essere rispettate ad ogni costo.
Spesso accadeva che i colcos più fiorenti subissero pressioni di ogni tipo da parte delle organizzazioni locali del partito e dei soviet perché cedessero parte del loro raccolto ai loro vicini più poveri, innescando un disincentivo alla produttività assai gravido di nefaste conseguenze. L'appezzamento privato restava l'ancora di salvezza per l'alimentazione delle famiglie anche se venne pesantemente tassato con imposte in natura. I prodotti potevano essere poi venduti nei mercati cittadini, ma solo se il contadino fosse stato in possesso di una tessera che attestasse l'assoluzione dei suoi debiti con lo stato.
A partire dal 1950 i colcos più piccoli furono uniti in entità più grandi. Il fine delle fusioni era l'aumento della produttività. Nel 1951 Chruščёv lanciò l'idea delle agro-città, aziende agricole di notevoli dimensioni nelle quali il colcosiano avrebbe dovuto diventare semplice bracciante salariato. Fu aspramente criticato dalla stampa: proporre una riforma cosi radicale avrebbe significato ammettere implicitamente il fallimento del governo in campo agricolo. Il potere invece continuava a tessere le lodi del sistema colcosiano. Al XIX congresso del PCUS, Malenkov annunciò la definitiva risoluzione del problema cerealicolo. In base ai dati di cui disponiamo possiamo affermare che dopo i detenuti, la più misera e disperata classe sociale in URSS erano i 33 milioni di contadini con le loro rispettive famiglie, la cui massacrante fatica teneva in piedi tutto il sistema.
La classe operaia era il soggetto nominale del regime e l'oggetto ideologico delle sue migliori intenzioni. Tra il 1928 e il 1954 i salari nominali crebbero di 11 volte ma tale aumento va confrontato con quello del costo della vita, ponendo come base 100 il livello del 1928.
Dalla tabella risulta che l'incremento dei salari è stato inferiore a quello del costo della vita. Confrontiamo ora la condizione dell'operaio sovietico con quella di un operaio occidentale posto come base 100 il livello dell'URSS.
Nonostante il costo della vita fosse un problema reale l'ultimo periodo staliniano viene ricordato per la costante diminuzione dei prezzi al consumo dei generi di prima necessità.
Un altro problema della popolazione urbana operaia era quello degli alloggi. La costante diminuzione dei metri quadrati a disposizione in tutta l'epoca staliniana si spiega con la preponderante precedenza assegnata all'industria pesante e all'industria energetica rispetto a tutti gli altri investimenti. I grandi cantieri e le grandi fabbriche vennero costruiti senza tener conto delle esigenze operaie in termini di alloggi e infrastrutture. Le maestranze si dovettero arrangiare con baracche e buche nel terreno. Tutto ciò contribuì alla brutalizzazione della forza lavoro e all'emergere di alcolismo e violenze.
Militari, scienziati, letterati: le élite dell'URSS post-bellica
Mano a mano che la consistenza e l'incidenza della élite burocratica dominante cresceva, il ruolo e il peso politico della classe operaia sovietica diminuiva. Nel 1934 i militanti operai erano il 60 percento, il 9,3 percento dei quali effettivamente inseriti nella produzione. Nel 1952 tale cifre scese al 7,8 percento. Nei soviet invece le cifre erano rispettivamente il 42 percento nel 1937 e il 31,8 percento nel 1950.
I militari erano una forza reale della società sovietica. Sotto Stalin gli alti ufficiali furono decimati durante il terrore degli anni trenta. Durante la seconda guerra mondiale le responsabilità e la possibilità di prendere autonome decisioni fece lievitare l'autocoscienza e l'autostima del corpo degli ufficiali. Dopo la vittoria essi divennero una autentica forza politico-morale, soprattutto agli occhi della popolazione. Stalin si affrettò ad assegnare a molti di loro responsabilità in distretti periferici. Tutti venivano costantemente spiati da attendenti, autisti e amanti. Alcune imprudenti conversazioni telefoniche ebbero come conseguenza arresti ed esecuzioni.
Con la fine della guerra il popolo si attendeva un miglioramento delle condizioni mentre il regime chiese ulteriori sacrifici. Il socialismo come meta non suscitava più gli entusiasmi degli anni venti e trenta e occorreva trovare nuovi stimoli ideali. Il patriottismo fornì al regime nuova linfa propagandistica. Inoltre la comparsa di nuovi nemici, i paesi capitalisti all'esterno e l'intellettuale cosmopolita dal cognome non russo all'interno, implicava la necessità per il cittadino sovietico di pazientare ancora.
Uno dei segni della crisi del regime staliniano furono l'ascesa e l'affermazione dell'agrobiologo Lysenko a capo del settore delle scienze agricole dell’URSS. Egli prometteva un miracolo, l'abbondanza delle derrate agricole, e per raggiungere tale scopo poté eliminare moralmente e fisicamente avversari accademici e autentici scienziati. Lysenko, durante il suo regime accademico, negò la possibilità agli scienziati di spaziare nei campi della genetica e della teoria dell'ereditarietà e inferse un colpo durissimo all'agricoltura sovietica. Un colpo che, terzo nell'ordine, giungeva dopo la collettivizzazione e la guerra.
In generale, nell'ultimo periodo staliniano, il rapporto tra il regime e la comunità scientifica fu caratterizzato dal primato assegnato alla scienza nazionale russa e dalla persecuzione nei confronti delle teorie scientifiche giunte dal mondo esterno. I primi farne le spese furono gli scienziati di origine ebraica.
I nuovi lavori teorici di Stalin, Il marxismo e i problemi della linguistica e I problemi economici dello sviluppo dell'URSS, implicarono non pochi problemi per parecchi linguisti ed economisti di fama, rei di “rinnegare” gli insegnamenti del dittatore. Soltanto i fisici poterono godere di una certa tranquillità. L'urgenza di costruire la bomba atomica pose il regime davanti all'impossibilità di perseguire arbitrariamente chi lavorava nel settore.
Un altro tratto caratteristico del periodo fu l'offensiva anti-semita in ogni settore della società e una forte campagna propagandistica di stampo nazionalista russo-sovietico. La patria prese il posto del comunismo nelle priorità propagandistiche. Particolare e severa attenzione fu dedicata alla storia e alla letteratura, due settori fortemente incisivi nella formazione della personalità degli individui. Gli scrittori furono stimolati nel raccontare le gesta dei nuovi eroi russi: i resistenti e i partigiani anti-nazisti e gli eroi della ricostruzione post-bellica.
Un grande pericolo per la cultura conformista del regime giunse da una nova generazione di poeti e prosatori che, ispirati dalle miserie della guerra, intendevano rielaborare criticamente il modo sovietico di vita. La campagna ideologica per eliminare sul nascere qualsiasi deviazionismo nelle arti e nella cultura fu lanciata da Ždanov (ždanovščina): si esigeva che venisse estirpata qualsiasi influenza della cultura occidentale e che si rispettasse la linea culturale del partito. L'umorista Zoščenko fu bersagliato per aver scritto un racconto nel quale una scimmia, scappata dallo zoo, decide di tornare in gabbia autonomamente dopo aver sperimentato la “libera” vita sovietica. Zoščenko aveva sbagliato bersaglio: il Comitato Centrale chiese esplicitamente agli scrittori di rivolgere la loro satira verso l'occidente e i costumi borghesi americani.
Nemmeno il teatro e la drammaturgia vennero risparmiati. Particolare attenzione fu dedicata all'opera di revisione della storia dei popoli allogeni che abitavano nella periferia dell'impero. La teoria marxista ortodossa, che reputava progressisti i movimenti che si opposero alla colonizzazione zarista nel Caucaso e nell'Asia centrale, venne rinnegata. Gli eroi più popolari della tradizione letteraria kazaka, azera, kirghiza, jakuta, cecena etc. divennero di colpo dei criminali reazionari. Gli scrittori che ne cantarono le gesta spesso finirono in prigione. Tutti gli altri dovettero riallinearsi.
Cala il sipario. Le ultime manovre del dittatore
L'era staliniana si avviava al termine in un'atmosfera cupa e opaca. Nell'Ottobre del 1952, a tredici anni dal precedente, si riunì il XIX Congresso del partito. La composizione dei delegati, il 61 percento dei quali aveva partecipato al XVIII, dimostrava la stabilità raggiunta dai quadri dopo il “Grande Terrore” degli anni trenta. Stalin partecipò poco ai lavori del Congresso e quando apparve impressionò i presenti per la sua debolezza. Malenkov vi lesse il rapporto ufficiale, nel quale mentì spudoratamente sui risultati ottenuti in agricoltura. Alla fine del Congresso fu eletto un Comitato Centrale nel quale aumentò considerevolmente il numero dei segretari regionali, un fatto da tenere bene a mente. Stalin inoltre fece abolire il vecchio Ufficio politico e l'Orgburo, sostituendoli con un Presidium molto numeroso (25 membri effettivi e 11 membri candidati), tra i quali figuravano dieci segretari del Comitato centrale, tredici vice-presidenti del consiglio dei ministri, i segretari dei partiti ucraino e bielorusso, il capo dei servizi di sicurezza di Stato (MGB poi KGB), dirigenti dei sindacati, del Komsomol, della Commissione Centrale di Controllo ecc.
Quali riflessioni possiamo trarre da questa piccola rivoluzione istituzionale? Innanzitutto quello che si formò fu una specie di para-parlamento, composto dai massimi dirigenti del partito e dello Stato, nel quale il ruolo del partito e della sua capacità decisionale uscì rafforzato (cosa di cui Chruščёv saprà profittare). A sovrastare la struttura stava orribilmente Stalin. Egli ora aveva a che fare con un'assemblea composita, giovane e totalmente asservita e non più con un gruppo ristretto di vecchi stalinisti che disprezzava e dei quali, forse, meditava l'eliminazione. Già nel primo plenum del nuovo Comitato centrale, uno Stalin rinvigorito e carico di “odio e rabbia”, sollevò la scure su tutto il gruppo dirigente, colpendo a scopo dimostrativo Molotov e Mikojan. Essi furono esclusi dal gruppo ristretto e informale che avrebbe governato il paese fino alla morte di Stalin ma tutti gli altri vissero nel terrore per settimane, memori di quanto accaduto quindici anni prima e di quanto stava accadendo in Europa orientale, dove i vertici dei partiti comunisti locali erano stati decapitati da purghe ferocissime.
Il dibattito tra gli studiosi sulle reali intenzioni di Stalin è ancora aperto e forse non giungerà mai a una conclusione, a causa della mancanza di documenti certi che ne attestino una volontà precisa. Tuttavia molte testimonianze e svariati indizi fanno pensare che il dittatore stesse preparando una nuova purga dei vertici del partito e la deportazione degli ebrei dalle principali città del paese. L'antisemitismo si sviluppò in URSS in parallelo alla rivalutazione del nazionalismo russo. Tutte le minoranze etniche conobbero fasi critiche nei loro rapporti con il regime. Molte furono punite perché accusate di collaborazionismo con i tedeschi, altre perché considerate la quinta colonna della resistenza alle politiche economiche del regime. Gli ebrei furono considerati particolarmente destabilizzanti nel momento in cui lo Stato di Israele emerse come solido alleato degli Stati Uniti. Le persecuzioni etniche e razziali staliniane ebbero sempre un significato politico e possono quindi essere distinte qualitativamente da quelle naziste.
Tutto, comunque, si arrestò miracolosamente la mattina del 1° marzo 1953 grazie a un'emorragia cerebrale che mise fuori combattimento il tiranno. Per quattro giorni i suoi collaboratori ne seguirono al capezzale l'agonia, con sentimenti contrastanti. Chruščёv, ad esempio, ricordò con indignazione l'atteggiamento di Berija:
non appena Stalin mostrò segni di miglioramento che ci fecero sperare nella guarigione, Berija si mise in ginocchio, prese la mano di Stalin e cominciò a baciarla. Quando Stalin fu di nuovo in stato d'incoscienza e chiuse gli occhi, Berija si alzò in piedi e sputò.
Stalin spirò il 5 marzo alle ore 21:50. La notizia rimbalzò da un capo all'altro del paese e del mondo suscitando, anche in questo caso, sentimenti e reazioni contrastanti. I lavoratori dei ministeri e degli apparati, la burocrazia di partito e molti tra i membri dell'esercito lo piansero sinceramente. Anche coloro che ebbero la possibilità di osservarne da vicino crudeltà e spietatezza si rammaricarono per la scomparsa di un padre certamente terribile e severo, ma pur sempre un padre, dal quale era dipeso il destino.
Nei circoli di intellettuali e scienziati, nell'arcipelago Gulag, tra le masse emarginate, impoverite e criminalizzate poste alla periferia sociale del sistema, si vissero attimi di grande, commossa gioia. In generale il sentimento più ricorrente fu l'incertezza. Cosa sarebbe accaduto al paese senza la sua Guida? Gli studenti animarono, fuori dalle università, vivaci dibattiti sul futuro personale e collettivo. Speranze, interrogativi carichi di visione, capacità di riappropriarsi del proprio destino cominciarono a manifestarsi in una società smarrita ed eccitata. Da questo punto di vista si potrebbe affermare che la morte di Stalin fu il primo, vero colpo allo stalinismo.
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