Come già accennato nei precedenti post, in particolare in quello di introduzione alla storia dell'URSS e in quello riguardante il rapporto fra il regime e le masse contadine,
l'esiguità della classe operaia russa spinse Lenin a rielaborare, alla luce
delle condizioni oggettive, il ruolo del proletariato dell'industria nel
processo rivoluzionario e i rapporti tra partito e proletariato stesso.
La
Russia dei primi del novecento conobbe lo sviluppo dell'industria meccanica e
una prima piccola significativa migrazione di contadini verso le nuove realtà
industriali. Tuttavia il proletariato urbano, oltre a rappresentare una piccola
isola in un oceano contadino, scontava un ritardo di politicizzazione ben
evidenziato da Lenin nel Che fare? (1902). In questa opera, fondamentale e
fondante, egli sostenne che con le sue sole forze il proletariato non sarebbe
riuscito ad andare oltre una semplice coscienza sindacale: solo un partito
di rivoluzionari di professione avrebbe potuto guidare la classe operaia verso
la maturità e la consapevolezza del proprio compito storico di emancipazione
universale.
La guerra, la rivoluzione e gli operai
Con lo scoppio della prima guerra mondiale si aprirono per i
bolscevichi nuove opportunità politiche. Le loro parole d'ordine per esigere
una pace immediata e “tutto il potere ai soviet” valsero loro una rinnovata
popolarità tra soldati e operai. Le adesioni al partito giunsero a quota 200.000
. In quegli anni la categoria “classe operaia” cominciò ad assumere la
fisionomia di un postulato storico e teorico che definiva determinate identità
ideologiche e politiche e non più soltanto una categoria sociologica utile a
designare i salariati dell’industria.
Dopo la vittoria dell’Ottobre 1917 i
rapporti tra il nuovo regime e il proletariato urbano peggiorarono gradualmente
fino allo scoppio delle grandi rivolte operaie del 1921 (Kronstadt). Tuttavia,
anche in anni così difficili, il regime destinò agli operai cure premurose e si
sforzò di garantirne partecipazione, alimentazione ed educazione in misura
assai maggiore di quanto non facesse con i contadini.
Tuttavia, proprio perché
favoriti, fu loro chiesto, e da loro ottenuto, il massimo sacrificio durante la guerra
civile. A causa del cataclisma i lavoratori dell’industria, che nel 1917 erano
3,5 milioni, scesero a meno di un milione nel 1921. Il loro numero cominciò a
risalire con il varo della NEP, la Nuova Politica Economica, e lo sviluppo industriale
che ne seguì.
Subito dopo la morte di Lenin il partito lanciò grandi
campagne di reclutamento volte a proletarizzarne il volto, e molti militanti di
origine operaia ascesero a ruoli dirigenziali. La cosiddetta “leva leninista”
fu la prima iniziativa di tipo staliniano volta a preservare formalmente la
patina marxista e operaista che caratterizzava il regime. La retorica
paternalista che ne accompagnava la costruzione non poteva nascondere il
divario crescente tra realtà sovietica e speranze comuniste. La svolta decisiva
nei rapporti tra regime e classe operaia sovietica avvenne alla fine degli anni
venti. Tuttavia sarebbe impossibile analizzarne le fasi senza prima descrivere
in termini essenziali la concezione che il gruppo dirigente staliniano ebbe
dell'economia e del suo sviluppo.
L'abbandono della NEP: l'economia di piano
Sappiamo che la fine della NEP fu decisa perché il sistema
ibrido che la teneva in piedi entrò in crisi. La forbice tra prezzi industriali
e prezzi agricoli si allargò, impedendo allo Stato di pianificare lo sviluppo
industriale e di rifornire le città adeguatamente e a prezzi ragionevoli.
Tuttavia la NEP poteva essere salvata, aumentando gli spazi all'iniziativa
privata nel piccolo commercio e in agricoltura. Ma tale non era l’intenzione
dei governanti e del partito, che soffrirono per la limitazioni dei poteri che
la NEP rappresentava. Stalin trovò a modo suo la soluzione: promosse
l’industrializzazione accelerata del paese e la collettivizzazione
dell’agricoltura.
A causa della povertà in materia di teoria economica, l’URSS
si avviò allora verso una strada in cui il finanziamento pubblico alle
industrie e la non contabilizzazione dei costi di investimento ebbero un ruolo
chiave. I massicci investimenti causavano un eccesso di domanda al quale
seguiva una perenne fame di merci. La mancata contabilizzazione dei costi di
investimento procuravano falle nel bilancio dello Stato che fu necessario
sanare attraverso la continua richiesta di sacrifici alla popolazione. Inoltre
gli obbiettivi assegnati al piano quinquennale furono eminentemente politici e
non seppero tenere conto delle reali possibilità del paese e della capacità
della classe operaia di reggere umanamente allo sforzo produttivo richiesto.
La “grande svolta”
staliniana degli anni 1928-33 ebbe una fisionomia volontaristica e soggettivistica
con al centro un piano economico intriso di contenuti politici. Tutte le
prudenti considerazioni economiche sviluppate dai tecnici e da parte
dell'opposizione buchariniana cedettero il passo alle implacabili direttive del
partito e del suo nuovo padrone.
Anche i tecnici più capaci e onesti del
Gosplan (l'organo della pianificazione) cominciarono a falsificare i bilanci
con fantasiose prospettive di entrate future e diminuzioni di costi. Inoltre il
piano fu più volte rivisto al rialzo in corso d’opera, facendo in qualche modo
sparire la pianificazione dal piano. A ciò si deve aggiungere una
sottovalutazione costante dei pericoli e delle conseguenze dell'inflazione. Dal
calcolo della stessa veniva infatti sottratto l'ammontare dei crediti a breve
termine che le imprese chiedevano alla Banca centrale attraverso l’emissione di
cambiali.
Alla fine del 1929 una riforma del credito abolì l'uso delle cambiali
e introdusse il principio della pianificazione del credito. L'obbiettivo della
riforma era quello di ridurre le spinte inflazionistiche, razionalizzare e
centralizzare le decisioni di investimento. Tuttavia l’abolizione delle
cambiali, che pur in maniera distorta permettevano di tracciare i crediti
rilasciati, ampliò l'inflazione anziché contenerla. L'idea che il credito
potesse essere pianificato, attraverso l’istituzione di un conto corrente per
ogni impresa nei quali versare una quota di credito prestabilita, non teneva
conto delle variabili imprevedibili presenti in ogni organismo economico. Visto
che i conti correnti furono affidati agli organismi bancari, le imprese assunsero l’abitudine a disinteressarsi dei
propri bilanci. Inoltre, dato che a nessuno sarebbe venuto in mente di
ostacolare i piani di investimento nell'industria, considerati la priorità dal
regime, ogni qualvolta le imprese esaurivano il credito a loro disposizione, la
Banca ne elargiva di nuovi.
della
La visione economica bolscevica, figlia di un orizzonte
culturale assai ristretto, condusse quindi ad un sistematico alternarsi di
investimenti spregiudicati, crisi economico-finanziarie ricorrenti e
repressioni spaventose utilizzate come unica arma per affrontare la crisi
stessa. La storia del rapporto tra regime stalinista e classe operaia sovietica
è in buona parte la storia delle repressioni attuate in suo nome e contro di
essa per costringerla a digerire i sacrifici necessari a superare i momenti
critici.
Gestire i sacrifici: alternare propaganda e repressione
Nell'Aprile del 1928 si aprì il primo grande processo
dell’era staliniana indirizzato a reprimere gli “specialisti borghesi” che
avevano accettato di servire il nuovo regime. La denuncia come “nemici di
classe” responsabili di crimini sensazionali di individui appartenenti a ceti
privilegiati, e perciò odiati, fu gradita ad una parte del proletariato
industriale e soprattutto ai giovani attivisti di estrazione popolare. Le
difficoltà economiche e alimentari e il senso di insicurezza spinsero numerosi
operai ad accettare di buon grado i capri espiatori offerti dal regime, specie
se accusati di essere i responsabili della crisi di cui si soffriva. Il lancio
del primo piano quinquennale fu accompagnato dall'istituzione di numerosi
processi contro “sabotatori” e da arresti di massa.
Le repressioni non si limitarono all'intelligenzija
“tecnica”, ma coinvolsero anche semplici operai. In un articolo comparso sulla
Pravda si mise in relazione il cattivo
funzionamento delle ferrovie con la presenza di “nemici di classe” infiltratisi
in posti “modesti”. I lubrificatori, gli
addetti agli scambi, gli operai delle officine ferroviarie, i fresatori, i
meccanici, i macchinisti e i fuochisti, furono chiamati a rispondere dei guasti
dei macchinari sul lavoro o per la mancata esecuzione degli irrealizzabili
obbiettivi del piano.
Sempre alla fine degli anni '20 furono varate leggi che
reintrodussero il principio della direzione personale autocratica in fabbrica,
che fu moderata negli anni della NEP da un “triangolo” composto dal direttore,
dal segretario del partito e da quello del sindacato. Il Comitato Centrale del
partito elencò le motivazioni di questo giro di vite su dirigenti e operai. I
primi erano sprovvisti del coraggio per attuare la durissima disciplina di
fabbrica necessaria per industrializzare velocemente il paese, mentre i secondi
andavano spronati in tutti i modi in quanto “fannulloni”.
Manifesto contro l'assentesimo: a far paura ai borghesi è il proletariato sovietico quando lavora. |
Infatti già dalla
seconda metà del 1928 il regime si curò di fornire una legittimazione
ideologica all'offensiva che stava per lanciare contro le fabbriche. Attraverso
un'intensa campagna propagandistica, che fece scalpore in patria e all'estero,
si definì il profilo di un nuovo mito staliniano: quello dell'operaio
“lavativo”. Gli operai furono descritti come avidi fannulloni, ladri, ubriaconi
e assenteisti. A loro furono imputati il crollo della disciplina e la
responsabilità della difficoltà nella realizzazione degli obbiettivi. Tuttavia,
poco dopo, l'imbarazzo di un regime che continuava a definirsi “operaio” portò
alla creazione di una commissione speciale, istituita per garantire la
“disciplina sul lavoro”, che sostituì il mito dell’ operaio lavativo con quello
del “neoassunto contadino”, definito ignorante e ostile. La propaganda
raddrizzò il tiro: nelle fabbriche, si disse, avveniva una dura lotta tra
l'avanguardia operaia cosciente (gli udarniki) e una “massa arretrata” che vi si opponeva.
I testimoni più attenti di questi avvenimenti non poterono
che constatare il livello raffinato raggiunto dalla menzogna dei mezzi di
comunicazione del regime. Infatti gli operai di origine contadina erano ancora
una minoranza tra i neoassunti e gli operai che guidavano le proteste contro il
peggioramento delle condizioni di lavoro erano in realtà gli operai con più
anzianità ed esperienza.
Nei primi anni del primo piano quinquennale il crollo
dei salari reali (15-20 percento in meno dal 1928 al 1930 ) e l'aumento delle norme di
produzione furono accompagnati da un risveglio operaio che il regime si
apprestò a spezzare con determinazione. I licenziamenti per assenteismo
(progul) passarono dal 5 percento del 1926-27 al 17 percento del 1928-29. Il ritmo produttivo
imposto alle maestranze causò l'esplosione degli incidenti sul lavoro che
arrivarono a coinvolgere 220 operai ogni 1000.
Stalin cercò di bilanciare i
malumori operai con misure populiste e con il lancio dei “lavoratori d’assalto”
(udarniki). Questi ultimi vennero selezionati tra i giovani operai iscritti al
Komsomol (la gioventù comunista) e il
loro compito fu quello di mobilitarsi per sostenere dentro le fabbriche le
politiche del regime. In cambio di tali servigi fu promessa loro una rapida
carriera nelle gerarchie di fabbrica, cosa resa possibile anche dalle purghe
contro gli specialisti che aprivano buchi negli organigrammi dei vertici
aziendali. Cominciò così a delinearsi la formazione di quella casta burocratica
di origine operaia e di sicura fede staliniana che permise al regime di continuare
a presentarsi come autenticamente proletario e allo stesso tempo di imporre la
disciplina e l'obbedienza necessarie a trascinare la società verso nuovi
mostruosi sacrifici.
Tuttavia, in quegli anni, sulla strada del regime si trovava
ancora un ostacolo da rimuovere. Nel dicembre 1928 si aprì l’VIII Congresso dei
sindacati sovietici, durante il quale gli stalinisti vi mossero un durissimo
attacco contro i gruppi dirigenti. Questi erano capeggiati da Tomskij, lo
storico leader, e vivevano una profonda crisi di ruolo politico nelle
fabbriche, in quanto malvisti dagli operai e mal tollerati dai dirigenti. Quel
che rimaneva della loro autonomia veniva speso per contrastare la svolta
staliniana, cosa che ne fece l'unica burocrazia sovietica ancora capace di
opporsi allo strapotere del despota. Il conto con i sindacati e qualsiasi altra
opposizione interna fu regolato durante la XVI Conferenza del partito
dell'aprile 1929, che fu una tappa fondamentale nel rafforzamento della
dittatura personale di Stalin.
Nell'ultimo scorcio degli anni '20, per rispondere alla crisi
e garantire il nutrimento alle città, venne introdotto in tutta l'URSS il
razionamento dei generi alimentari di prima necessità. Sempre nel quadro della
lotta all'inflazione il governo decise di tagliare severamente la spesa
sociale. In questo periodo il risveglio operaio raggiunse il culmine. Le
proteste si rivolsero contro le condizioni di lavoro, la difficoltà nel trovare
cibo, gli arresti inspiegabili di compagni e colleghi, l'impossibilità di
curare la sfera privata. Soprattutto la rabbia operaia si scaglio contro il
movimento udarniko, vera e propria arma a doppio taglio della dittatura contro
i diritti operai formalmente riconosciuti dalle leggi.
Nato formalmente per
aumentare produttività e produzione, finì per essere sostanzialmente uno
strumento di pressione sulle masse operaie. Dovendone valutare l’operato dal
punto di vista economico, esso gettò nel caos la vita dei reparti e ostacolò
l'andamento del normale processo produttivo. Il risveglio operaio durò poco,
sia causa dei livelli repressivi eccezionalmente alti, sia perché la durezza
della vita spinse le famiglie ad occuparsi esclusivamente della sopravvivenza
quotidiana.
Intanto in occidente scoppiava una gravissima crisi
finanziaria che contribuì a rafforzare il mito sovietico del piano. Molti
intellettuali e operai, ignari di quanto stava in realtà accadendo, guardarono
allora all'URSS come ad una alternativa vincente rispetto ad un mondo
capitalista che sembrava incapace di offrire stabilità.
Estensione del diritto penale e passaporti interni: la congelazione dei flussi migratori
L'offensiva
anti-operaia del regime proseguì per tutti i primi anni trenta. Il sistema
udarniko, su consiglio di Gor'kij, fu esteso alla metà della forza lavoro. Gli
operai, costretti a turni massacranti, morivano frequentemente per congelamento
o a causa di incidenti. Inoltre il regime decise di reintrodurre i passaporti
interni, l’abolizione dei quali aveva rappresentato una delle principali
conquiste dell'Ottobre.
Molti studiosi giudicarono questa misura come uno
strumento utile a regolare i flussi tra le città, desiderose di manodopera, e
le campagne, sconvolte dalla collettivizzazione e quindi soggette ad un caotico
svuotamento. In realtà l’uso che ne fu fatto suggerisce un fine di repressione
preventiva. Il passaporto permetteva di conservare la residenza nelle città,
dove era più facile trovare lavoro e procurarsi il cibo. Tuttavia il regime non
aveva intenzione di concederlo a chiunque vi abitasse. Gli emarginati, i
contadini fuggiti da dekulakizzazione e collettivizzazione, le persone private
di diritti politici e civili, gli ex-condannati a pene lievi che si
presentarono a richiedere il passaporto vennero individuati e deportati in
regioni remote con i rispettivi nuclei familiari.
Un ritratto classico di Stalin riportato su un manifesto elettorale: si tratta della propaganda per le elezioni del 1937. |
Con questa politica di
“ripulitura” dagli “elementi ostili” e di filtraggio delle città, Stalin reagì
in maniera feroce alle conseguenze delle sue stesse politiche. Egli infatti
temeva, e non a torto, che le città fossero ormai diventate un ricettacolo di
“nemici di classe” fuggiti dalle campagne, carichi di odio verso un regime che
aveva distrutto il loro modo di vita, e che ora stavano penetrando nelle
fabbriche. Ma il proletariato urbano non aveva bisogno di cattivi consigli per
odiare a sua volta un regime che continuava a colpirne il tenore di vita. Nel
primo trimestre del 1933 i salari toccarono il punto più basso nella storia
sovietica, attestandosi a un quarto del livello del 1914.
Nonostante ciò, il
timore di perdere il passaporto e di finire nel gradino più basso della
piramide sociale sovietica (quello della marginalità criminalizzata e della
deportazione senza ritorno), spinse gli operai a considerare il magro salario
un privilegio da preservare a costo di ogni sacrificio, piuttosto che
considerarlo un buon motivo per protestare. Alla fine degli anni trenta venne
introdotto il libretto di lavoro, che restava nelle mani della direzione e che
era necessario per essere assunti. Chi abbandonava il lavoro senza permesso ne
perdeva il possesso. Questa misura vincolò l'operaio alla fabbrica di
appartenenza privandolo della libertà di spostarsi per cercare migliori
occupazioni.
Inoltre i reati amministrativi divennero penali. Un ritardo di
venti minuti veniva considerato come una assenza ingiustificata e questa a sua
volta poteva essere punita con 6 mesi di lavoro coatto e la decurtazione del
25% del salario. L’orario di lavoro settimanale salì sopra le 55 ore e lasciare
o cambiare lavoro senza il permesso dei dirigenti venne punito con 2-4 mesi di
prigione. Questi decreti rappresentarono fino agli anni cinquanta il principale
strumento di ricatto e di criminalizzazione del regime nei confronti della
forza lavoro. Nel corso del decennio 1940-50 gli operai colpiti dalle misure
elencate furono 11 milioni .
Dopo la fine della guerra la ricostruzione del paese fu
realizzata con metodi coercitivi, quali il reclutamento forzato di giovani (la
“riserva di lavoro”) e l’abolizione del riposo settimanale. Il proletariato
urbano maturò la “sindrome da vittoria rubata” che consistette nella speranza,
subito delusa, di un ammorbidimento del regime e di un miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro. La passività e l'arrendevolezza con cui la
classe operaia sovietica subì tutto ciò può essere spiegata con il timore
nutrito nei confronti della crudeltà mostrata dal regime e dal suo padrone. Secondo Grossman essa era avvertita così grande da cessare di essere uno
strumento per diventare l’oggetto di un'adorazione quasi mistica e religiosa.
In sintesi: i caratteri della modernizzazione forzata
Durante l’età staliniana furono gettate le fondamenta di un sistema peculiare.
I metodi usati per costruirlo furono il frutto di molteplici fattori, quali
l’ideologia marxista (benché filtrata e rivista in base alle interpretazioni
del gruppo dirigente staliniano), le tradizioni russe e la personalità del
tiranno e dei suoi collaboratori. La “modernizzazione” sovietica fu un processo
sui generis, difficilmente inquadrabile nelle categorie tradizionali.
Il
sistema, ad esempio, non completò mai la transizione verso una legittimazione
razionale-legale dell’autorità che restò fondata sul mito carismatico
(dell’Ottobre, di Lenin, di Stalin, della vittoria del 1945 e poi, come
vedremo, del Segretario Generale). Certamente qualcosa di nuovo e potente fu
realizzato. Un apparato militare-industriale di grandi dimensioni e di qualità
fece la sua comparsa, anche se bisognoso di costosissime cure e aggiustamenti
continui. Alcuni studiosi hanno parlato di “modernizzazione regressiva”
(Bettanin), altri di “grande balzo dal pre-capitalismo al non-capitalismo”
(Lewin). Tenendo conto dell’influenza degli ideali socialisti e del modo in cui
vennero filtrati e reinterpretati dal gruppo dirigente stalinista, si potrebbe
parlare di un socialismo “anti-socialista”.
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