mercoledì 16 ottobre 2013

Stalinismo, economia di piano e classe operaia


Manifesto di propaganda: Lenin indica la via al proletariato in rivolta sotto un'enorme bandiera rossa.
Come già accennato nei precedenti post, in particolare in quello di introduzione alla storia dell'URSS e in quello riguardante il rapporto fra il regime e le masse contadine, l'esiguità della classe operaia russa spinse Lenin a rielaborare, alla luce delle condizioni oggettive, il ruolo del proletariato dell'industria nel processo rivoluzionario e i rapporti tra partito e proletariato stesso. 


La Russia dei primi del novecento conobbe lo sviluppo dell'industria meccanica e una prima piccola significativa migrazione di contadini verso le nuove realtà industriali. Tuttavia il proletariato urbano, oltre a rappresentare una piccola isola in un oceano contadino, scontava un ritardo di politicizzazione ben evidenziato da Lenin nel Che fare? (1902). In questa opera, fondamentale e fondante, egli sostenne che con le sue sole forze il proletariato non sarebbe riuscito ad andare oltre una semplice coscienza sindacale: solo un partito di rivoluzionari di professione avrebbe potuto guidare la classe operaia verso la maturità e la consapevolezza del proprio compito storico di emancipazione universale.


La guerra, la rivoluzione e gli operai


Con lo scoppio della prima guerra mondiale si aprirono per i bolscevichi nuove opportunità politiche. Le loro parole d'ordine per esigere una pace immediata e “tutto il potere ai soviet” valsero loro una rinnovata popolarità tra soldati e operai. Le adesioni al partito giunsero a quota 200.000 . In quegli anni la categoria “classe operaia” cominciò ad assumere la fisionomia di un postulato storico e teorico che definiva determinate identità ideologiche e politiche e non più soltanto una categoria sociologica utile a designare i salariati dell’industria. 

Dopo la vittoria dell’Ottobre 1917 i rapporti tra il nuovo regime e il proletariato urbano peggiorarono gradualmente fino allo scoppio delle grandi rivolte operaie del 1921 (Kronstadt). Tuttavia, anche in anni così difficili, il regime destinò agli operai cure premurose e si sforzò di garantirne partecipazione, alimentazione ed educazione in misura assai maggiore di quanto non facesse con i contadini

Tuttavia, proprio perché favoriti, fu loro chiesto, e da loro ottenuto, il massimo sacrificio durante la guerra civile. A causa del cataclisma i lavoratori dell’industria, che nel 1917 erano 3,5 milioni, scesero a meno di un milione nel 1921. Il loro numero cominciò a risalire con il varo della NEP, la Nuova Politica Economica, e lo sviluppo industriale che ne seguì.

Subito dopo la morte di Lenin il partito lanciò grandi campagne di reclutamento volte a proletarizzarne il volto, e molti militanti di origine operaia ascesero a ruoli dirigenziali. La cosiddetta “leva leninista” fu la prima iniziativa di tipo staliniano volta a preservare formalmente la patina marxista e operaista che caratterizzava il regime. La retorica paternalista che ne accompagnava la costruzione non poteva nascondere il divario crescente tra realtà sovietica e speranze comuniste. La svolta decisiva nei rapporti tra regime e classe operaia sovietica avvenne alla fine degli anni venti. Tuttavia sarebbe impossibile analizzarne le fasi senza prima descrivere in termini essenziali la concezione che il gruppo dirigente staliniano ebbe dell'economia e del suo sviluppo.



L'abbandono della NEP: l'economia di piano


Sappiamo che la fine della NEP fu decisa perché il sistema ibrido che la teneva in piedi entrò in crisi. La forbice tra prezzi industriali e prezzi agricoli si allargò, impedendo allo Stato di pianificare lo sviluppo industriale e di rifornire le città adeguatamente e a prezzi ragionevoli. Tuttavia la NEP poteva essere salvata, aumentando gli spazi all'iniziativa privata nel piccolo commercio e in agricoltura. Ma tale non era l’intenzione dei governanti e del partito, che soffrirono per la limitazioni dei poteri che la NEP rappresentava. Stalin trovò a modo suo la soluzione: promosse l’industrializzazione accelerata del paese e la collettivizzazione dell’agricoltura.

Manifesto di propaganda: cittadini sovietici e un torreggiante operaio con la bandiera delle tre guide, Lenin, Marx e Engels.
A causa della povertà in materia di teoria economica, l’URSS si avviò allora verso una strada in cui il finanziamento pubblico alle industrie e la non contabilizzazione dei costi di investimento ebbero un ruolo chiave. I massicci investimenti causavano un eccesso di domanda al quale seguiva una perenne fame di merci. La mancata contabilizzazione dei costi di investimento procuravano falle nel bilancio dello Stato che fu necessario sanare attraverso la continua richiesta di sacrifici alla popolazione. Inoltre gli obbiettivi assegnati al piano quinquennale furono eminentemente politici e non seppero tenere conto delle reali possibilità del paese e della capacità della classe operaia di reggere umanamente allo sforzo produttivo richiesto.

 La “grande svolta” staliniana degli anni 1928-33 ebbe una fisionomia volontaristica e soggettivistica con al centro un piano economico intriso di contenuti politici. Tutte le prudenti considerazioni economiche sviluppate dai tecnici e da parte dell'opposizione buchariniana cedettero il passo alle implacabili direttive del partito e del suo nuovo padrone. 

Anche i tecnici più capaci e onesti del Gosplan (l'organo della pianificazione) cominciarono a falsificare i bilanci con fantasiose prospettive di entrate future e diminuzioni di costi. Inoltre il piano fu più volte rivisto al rialzo in corso d’opera, facendo in qualche modo sparire la pianificazione dal piano. A ciò si deve aggiungere una sottovalutazione costante dei pericoli e delle conseguenze dell'inflazione. Dal calcolo della stessa veniva infatti sottratto l'ammontare dei crediti a breve termine che le imprese chiedevano alla Banca centrale attraverso l’emissione di cambiali. 

Alla fine del 1929 una riforma del credito abolì l'uso delle cambiali e introdusse il principio della pianificazione del credito. L'obbiettivo della riforma era quello di ridurre le spinte inflazionistiche, razionalizzare e centralizzare le decisioni di investimento. Tuttavia l’abolizione delle cambiali, che pur in maniera distorta permettevano di tracciare i crediti rilasciati, ampliò l'inflazione anziché contenerla. L'idea che il credito potesse essere pianificato, attraverso l’istituzione di un conto corrente per ogni impresa nei quali versare una quota di credito prestabilita, non teneva conto delle variabili imprevedibili presenti in ogni organismo economico. Visto che i conti correnti furono affidati agli organismi bancari, le imprese  assunsero l’abitudine a disinteressarsi dei propri bilanci. Inoltre, dato che a nessuno sarebbe venuto in mente di ostacolare i piani di investimento nell'industria, considerati la priorità dal regime, ogni qualvolta le imprese esaurivano il credito a loro disposizione, la Banca ne elargiva di nuovi.
della

La visione economica bolscevica, figlia di un orizzonte culturale assai ristretto, condusse quindi ad un sistematico alternarsi di investimenti spregiudicati, crisi economico-finanziarie ricorrenti e repressioni spaventose utilizzate come unica arma per affrontare la crisi stessa. La storia del rapporto tra regime stalinista e classe operaia sovietica è in buona parte la storia delle repressioni attuate in suo nome e contro di essa per costringerla a digerire i sacrifici necessari a superare i momenti critici.



Gestire i sacrifici: alternare propaganda e repressione


Nell'Aprile del 1928 si aprì il primo grande processo dell’era staliniana indirizzato a reprimere gli “specialisti borghesi” che avevano accettato di servire il nuovo regime. La denuncia come “nemici di classe” responsabili di crimini sensazionali di individui appartenenti a ceti privilegiati, e perciò odiati, fu gradita ad una parte del proletariato industriale e soprattutto ai giovani attivisti di estrazione popolare. Le difficoltà economiche e alimentari e il senso di insicurezza spinsero numerosi operai ad accettare di buon grado i capri espiatori offerti dal regime, specie se accusati di essere i responsabili della crisi di cui si soffriva. Il lancio del primo piano quinquennale fu accompagnato dall'istituzione di numerosi processi contro “sabotatori” e da arresti di massa.

Le repressioni non si limitarono all'intelligenzija “tecnica”, ma coinvolsero anche semplici operai. In un articolo comparso sulla Pravda  si mise in relazione il cattivo funzionamento delle ferrovie con la presenza di “nemici di classe” infiltratisi in posti “modesti”.  I lubrificatori, gli addetti agli scambi, gli operai delle officine ferroviarie, i fresatori, i meccanici, i macchinisti e i fuochisti, furono chiamati a rispondere dei guasti dei macchinari sul lavoro o per la mancata esecuzione degli irrealizzabili obbiettivi del piano. 

Sempre alla fine degli anni '20 furono varate leggi che reintrodussero il principio della direzione personale autocratica in fabbrica, che fu moderata negli anni della NEP da un “triangolo” composto dal direttore, dal segretario del partito e da quello del sindacato. Il Comitato Centrale del partito elencò le motivazioni di questo giro di vite su dirigenti e operai. I primi erano sprovvisti del coraggio per attuare la durissima disciplina di fabbrica necessaria per industrializzare velocemente il paese, mentre i secondi andavano spronati in tutti i modi in quanto “fannulloni”. 

Operaio assenteista, borghese contento - Operaio che lavoro, borghese terrorizzato. Un manifesto della propaganda contro l'assenteismo.
Manifesto contro l'assentesimo: a far paura ai
borghesi è il proletariato sovietico quando lavora.
Infatti già dalla seconda metà del 1928 il regime si curò di fornire una legittimazione ideologica all'offensiva che stava per lanciare contro le fabbriche. Attraverso un'intensa campagna propagandistica, che fece scalpore in patria e all'estero, si definì il profilo di un nuovo mito staliniano: quello dell'operaio “lavativo”. Gli operai furono descritti come avidi fannulloni, ladri, ubriaconi e assenteisti. A loro furono imputati il crollo della disciplina e la responsabilità della difficoltà nella realizzazione degli obbiettivi. Tuttavia, poco dopo, l'imbarazzo di un regime che continuava a definirsi “operaio” portò alla creazione di una commissione speciale, istituita per garantire la “disciplina sul lavoro”, che sostituì il mito dell’ operaio lavativo con quello del “neoassunto contadino”, definito ignorante e ostile. La propaganda raddrizzò il tiro: nelle fabbriche, si disse, avveniva una dura lotta tra l'avanguardia operaia cosciente (gli udarniki) e una “massa  arretrata” che vi si opponeva.

I testimoni più attenti di questi avvenimenti non poterono che constatare il livello raffinato raggiunto dalla menzogna dei mezzi di comunicazione del regime. Infatti gli operai di origine contadina erano ancora una minoranza tra i neoassunti e gli operai che guidavano le proteste contro il peggioramento delle condizioni di lavoro erano in realtà gli operai con più anzianità ed esperienza. 

Nei primi anni del primo piano quinquennale il crollo dei salari reali (15-20 percento in meno dal 1928 al 1930 ) e l'aumento delle norme di produzione furono accompagnati da un risveglio operaio che il regime si apprestò a spezzare con determinazione. I licenziamenti per assenteismo (progul) passarono dal 5 percento del 1926-27 al 17 percento del 1928-29. Il ritmo produttivo imposto alle maestranze causò l'esplosione degli incidenti sul lavoro che arrivarono a coinvolgere 220 operai ogni 1000

Stalin cercò di bilanciare i malumori operai con misure populiste e con il lancio dei “lavoratori d’assalto” (udarniki). Questi ultimi vennero selezionati tra i giovani operai iscritti al Komsomol  (la gioventù comunista) e il loro compito fu quello di mobilitarsi per sostenere dentro le fabbriche le politiche del regime. In cambio di tali servigi fu promessa loro una rapida carriera nelle gerarchie di fabbrica, cosa resa possibile anche dalle purghe contro gli specialisti che aprivano buchi negli organigrammi dei vertici aziendali. Cominciò così a delinearsi la formazione di quella casta burocratica di origine operaia e di sicura fede staliniana che permise al regime di continuare a presentarsi come autenticamente proletario e allo stesso tempo di imporre la disciplina e l'obbedienza necessarie a trascinare la società verso nuovi mostruosi sacrifici. 

Tuttavia, in quegli anni, sulla strada del regime si trovava ancora un ostacolo da rimuovere. Nel dicembre 1928 si aprì l’VIII Congresso dei sindacati sovietici, durante il quale gli stalinisti vi mossero un durissimo attacco contro i gruppi dirigenti. Questi erano capeggiati da Tomskij, lo storico leader, e vivevano una profonda crisi di ruolo politico nelle fabbriche, in quanto malvisti dagli operai e mal tollerati dai dirigenti. Quel che rimaneva della loro autonomia veniva speso per contrastare la svolta staliniana, cosa che ne fece l'unica burocrazia sovietica ancora capace di opporsi allo strapotere del despota. Il conto con i sindacati e qualsiasi altra opposizione interna fu regolato durante la XVI Conferenza del partito dell'aprile 1929, che fu una tappa fondamentale nel rafforzamento della dittatura personale di Stalin.

Nell'ultimo scorcio degli anni '20, per rispondere alla crisi e garantire il nutrimento alle città, venne introdotto in tutta l'URSS il razionamento dei generi alimentari di prima necessità. Sempre nel quadro della lotta all'inflazione il governo decise di tagliare severamente la spesa sociale. In questo periodo il risveglio operaio raggiunse il culmine. Le proteste si rivolsero contro le condizioni di lavoro, la difficoltà nel trovare cibo, gli arresti inspiegabili di compagni e colleghi, l'impossibilità di curare la sfera privata. Soprattutto la rabbia operaia si scaglio contro il movimento udarniko, vera e propria arma a doppio taglio della dittatura contro i diritti operai formalmente riconosciuti dalle leggi.

Nato formalmente per aumentare produttività e produzione, finì per essere sostanzialmente uno strumento di pressione sulle masse operaie. Dovendone valutare l’operato dal punto di vista economico, esso gettò nel caos la vita dei reparti e ostacolò l'andamento del normale processo produttivo. Il risveglio operaio durò poco, sia causa dei livelli repressivi eccezionalmente alti, sia perché la durezza della vita spinse le famiglie ad occuparsi esclusivamente della sopravvivenza quotidiana.

Intanto in occidente scoppiava una gravissima crisi finanziaria che contribuì a rafforzare il mito sovietico del piano. Molti intellettuali e operai, ignari di quanto stava in realtà accadendo, guardarono allora all'URSS come ad una alternativa vincente rispetto ad un mondo capitalista che sembrava incapace di offrire stabilità.



Estensione del diritto penale e passaporti interni: la congelazione dei flussi migratori


L'offensiva anti-operaia del regime proseguì per tutti i primi anni trenta. Il sistema udarniko, su consiglio di Gor'kij, fu esteso alla metà della forza lavoro. Gli operai, costretti a turni massacranti, morivano frequentemente per congelamento o a causa di incidenti. Inoltre il regime decise di reintrodurre i passaporti interni, l’abolizione dei quali aveva rappresentato una delle principali conquiste dell'Ottobre. 

Molti studiosi giudicarono questa misura come uno strumento utile a regolare i flussi tra le città, desiderose di manodopera, e le campagne, sconvolte dalla collettivizzazione e quindi soggette ad un caotico svuotamento. In realtà l’uso che ne fu fatto suggerisce un fine di repressione preventiva. Il passaporto permetteva di conservare la residenza nelle città, dove era più facile trovare lavoro e procurarsi il cibo. Tuttavia il regime non aveva intenzione di concederlo a chiunque vi abitasse. Gli emarginati, i contadini fuggiti da dekulakizzazione e collettivizzazione, le persone private di diritti politici e civili, gli ex-condannati a pene lievi che si presentarono a richiedere il passaporto vennero individuati e deportati in regioni remote con i rispettivi nuclei familiari. 

Un manifesto elettorale del 1937 con un ritratto classico di Stalin.
Un ritratto classico di Stalin riportato su
un manifesto elettorale: si tratta della
propaganda per le elezioni del 1937.
Con questa politica di “ripulitura” dagli “elementi ostili” e di filtraggio delle città, Stalin reagì in maniera feroce alle conseguenze delle sue stesse politiche. Egli infatti temeva, e non a torto, che le città fossero ormai diventate un ricettacolo di “nemici di classe” fuggiti dalle campagne, carichi di odio verso un regime che aveva distrutto il loro modo di vita, e che ora stavano penetrando nelle fabbriche. Ma il proletariato urbano non aveva bisogno di cattivi consigli per odiare a sua volta un regime che continuava a colpirne il tenore di vita. Nel primo trimestre del 1933 i salari toccarono il punto più basso nella storia sovietica, attestandosi a un quarto del livello del 1914. 

Nonostante ciò, il timore di perdere il passaporto e di finire nel gradino più basso della piramide sociale sovietica (quello della marginalità criminalizzata e della deportazione senza ritorno), spinse gli operai a considerare il magro salario un privilegio da preservare a costo di ogni sacrificio, piuttosto che considerarlo un buon motivo per protestare. Alla fine degli anni trenta venne introdotto il libretto di lavoro, che restava nelle mani della direzione e che era necessario per essere assunti. Chi abbandonava il lavoro senza permesso ne perdeva il possesso. Questa misura vincolò l'operaio alla fabbrica di appartenenza privandolo della libertà di spostarsi per cercare migliori occupazioni. 

Inoltre i reati amministrativi divennero penali. Un ritardo di venti minuti veniva considerato come una assenza ingiustificata e questa a sua volta poteva essere punita con 6 mesi di lavoro coatto e la decurtazione del 25% del salario. L’orario di lavoro settimanale salì sopra le 55 ore e lasciare o cambiare lavoro senza il permesso dei dirigenti venne punito con 2-4 mesi di prigione. Questi decreti rappresentarono fino agli anni cinquanta il principale strumento di ricatto e di criminalizzazione del regime nei confronti della forza lavoro. Nel corso del decennio 1940-50 gli operai colpiti dalle misure elencate furono 11 milioni .

Dopo la fine della guerra la ricostruzione del paese fu realizzata con metodi coercitivi, quali il reclutamento forzato di giovani (la “riserva di lavoro”) e l’abolizione del riposo settimanale. Il proletariato urbano maturò la “sindrome da vittoria rubata” che consistette nella speranza, subito delusa, di un ammorbidimento del regime e di un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. La passività e l'arrendevolezza con cui la classe operaia sovietica subì tutto ciò può essere spiegata con il timore nutrito nei confronti della crudeltà mostrata dal regime e dal suo padrone. Secondo Grossman essa era avvertita così grande da cessare di essere uno strumento per diventare l’oggetto di un'adorazione quasi mistica e religiosa.



In sintesi: i caratteri della modernizzazione forzata


Durante l’età staliniana furono gettate le fondamenta di un sistema peculiare. I metodi usati per costruirlo furono il frutto di molteplici fattori, quali l’ideologia marxista (benché filtrata e rivista in base alle interpretazioni del gruppo dirigente staliniano), le tradizioni russe e la personalità del tiranno e dei suoi collaboratori. La “modernizzazione” sovietica fu un processo sui generis, difficilmente inquadrabile nelle categorie tradizionali.

Il sistema, ad esempio, non completò mai la transizione verso una legittimazione razionale-legale dell’autorità che restò fondata sul mito carismatico (dell’Ottobre, di Lenin, di Stalin, della vittoria del 1945 e poi, come vedremo, del Segretario Generale). Certamente qualcosa di nuovo e potente fu realizzato. Un apparato militare-industriale di grandi dimensioni e di qualità fece la sua comparsa, anche se bisognoso di costosissime cure e aggiustamenti continui. Alcuni studiosi hanno parlato di “modernizzazione regressiva” (Bettanin), altri di “grande balzo dal pre-capitalismo al non-capitalismo” (Lewin). Tenendo conto dell’influenza degli ideali socialisti e del modo in cui vennero filtrati e reinterpretati dal gruppo dirigente stalinista, si potrebbe parlare di un socialismo “anti-socialista”.

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