Il periodo kruscioviano si distinse per i fermenti culturali e per il clima di relativa libertà rispetto al cupo periodo staliniano. Abbiamo già parlato del fatto che gli intellettuali furono uno dei gruppi più favorevoli alla destalinizzazione e che accolsero con gioia la condanna di Stalin del XX Congresso. Tuttavia essi per natura erano abituati a rilanciare e non a soffermarsi alle sole contraddittorie e incomplete mezze verità di Chruščёv. Nell'intelligencija cominciarono a circolare i primi samizdat (pubblicazioni autonome e quindi illegali) nei quali cominciarono ad essere criticati apertamente aspetti del sistema considerati più profondi del culto della personalità, quali l’agricoltura collettiva, la sfrontatezza e l'ipocrisia della burocrazia, le diseguaglianze sociali e i problemi ecologici.
Gli intellettuali fra concessioni e ritorsioni
I gruppi di discussione che si riunivano per discutere di questi temi presero il nome di kompanye, dei veri e propri circoli di intellettuali legati da interessi e da amicizie comuni, che cercavano riparo dalla censura e dalla pericolosa sfera pubblica sovietica dentro gli appartamenti privati.
Fu in questo clima incerto, nel quale tolleranza e repressione si alternarono secondo i voleri del regime, che scoppiò il caso Pasternak.
Boris Pasternak |
La fine del 1958 fu caratterizzato da una stretta repressiva portata avanti attraverso perquisizioni, sequestri e retate, seguiti da processi ed arresti. La lotta contro il non conformismo si accentuò nel 1961 contro “gli individui che rifiutano di svolgere un lavoro socialmente utile e conducono un modello di vita antisociale e parassitico”. Tra i condannati vi furono numerosi artisti e letterati. A riprova della schizofrenia di Chruščёv nei suoi approcci al mondo della cultura, alla repressione di cui abbiamo detto si alternarono incredibili aperture. Tvardosvkij, il direttore di Novyj mir, la rivista che divenne il punto di riferimento per l'opinione pubblica progressista, gli propose il testo di un romanzo scritto da Aleksandr Solženicyn. Il titolo era Una giornata di Ivan Denisovič, che narra le drammatiche vicende di un prigioniero del gulag. Chruščёv, che fu colpito positivamente dal romanzo, lo sottopose al'attenzione del Presidium e dopo un braccio di ferro con i più riluttanti riuscì a spuntarla e ad ottenere il voto favorevole alla pubblicazione. Egli annunciò la notizia a Tvardovskij (che più tardi ammise di essersi sentito “felice come un ragazzino”) parlando in questi significativi termini:
Dobbiamo dire la verità su quel periodo. Le generazioni future ci giudicheranno, quindi occorre fargli capire in che condizioni abbiamo dovuto lavorare, con che tipo di eredità abbiamo fatto i conti.
Aleksandr Solženicyn |
Il regime, come al solito, fece un'improvvisa marcia indietro e, spaventato dal dibattito pubblico che si scatenò nel paese, attuò una stretta repressiva tesa a riprendere il controllo della situazione.
La commissione ideologica del Comitato centrale era composta da uomini che facevano di tutto per fomentare l'odio di Chruščёv contro gli intellettuali, forse anche con la produzione di notizie false. Quando nel dicembre 1962 egli andò a effettuare una famosa visita a un'esposizione d'arte d'avanguardia, cadde probabilmente in una loro trappola. Tuttavia egli non deluse le aspettative dei suoi nemici interni in quanto si comportò esattamente come essi si aspettavano. Egli commentò i quadri astratti dicendo che assomigliavano a merda di cane, che gli asini avrebbero dipinto meglio con la coda e che gli artisti erano dei pederasti. Qualche giorno dopo si tenne al Cremlino un incontro che sarebbe dovuto essere riparatore. Invece Chruščёv rincarò la dose, tenendovi un discorso di incredibile volgarità che lasciò di stucco anche i membri del Presidium. La sua reputazione presso l'intelligencija ne uscì a pezzi.
Le difficoltà della società sovietica
Il censimento del 1959 mostrò un paese che, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, si stava incamminato verso la modernità. Gli abitanti risultarono 209 milioni e per la prima volta quelli urbani superavano, seppur di poco, quelli rurali. Tra il 1956 e il 1966 i villaggi sovietici persero circa 18 milioni di residenti. La percentuale di chi aveva un'istruzione media o superiore era passata in vent'anni dal 15,9 al 58,7% e quella dei laureati dal 1,2 al 3,8%. La giornata di lavoro era in diminuzione e nel 1960 scese a sette ore più le sei del sabato. La maggioranza del lavoratori godeva ormai di venti giorni di ferie all'anno. Notevole fu l'aumento di apparecchi radiofonici e di televisori. Studiando questi dati molti studiosi cominciarono perciò a parlare di “convergenza” tra i due sistemi economici e sociali emersi dal dopoguerra.
A deformare e “inquinare” questa immagine della modernità sovietica vi erano tuttavia fenomeni quali l'alcolismo, la marginalità sociale e la miseria rurale. Nel 1960 pare che il consumo pro capite di alcol fosse di dieci litri. Questi inferi di disperazione e miseria umana erano popolati da vagabondi disoccupati, alcolizzati, invalidi, orfani, senza famiglia, madri sole con figli a carico impiegate in lavori miserabili, ex detenuti dei lager, persone arrestate per crimini controrivoluzionari, per collaborazionismo (prima del 1945) o per furto, per infrazioni disciplinari, ubriachezza e teppismo. La rabbia di questa fluttuante folla di marginali scoppiava spesso in piccole rivolte che davano filo da torcere alle autorità. D'altronde il codice penale sovietico conteneva ancora articoli come il 70 o il 190 che, pur riguardando i reati di propaganda antisovietica, si prestavano ad essere usati contro ogni forma di devianza.
Un'altra campagna lanciata da Chruščёv fu la lotta contro l'economia “nera”, sviluppatasi ai margini di quella ufficiale ma della quale era parte integrante. Molti dei bisogni dei consumatori venivano infatti soddisfatti attraverso la rete informale, dato che quella ufficiale non ne era in grado, anche se ovviamente in questi ambienti non mancavano imbroglioni, speculatori e vere e proprie associazioni a delinquere. Le due figure preminenti di questo sistema erano i funzionari e direttori corrotti, che incanalavano le merci delle fabbriche di loro competenza verso altre direzioni, e peculiari figure di imprenditori, che cercavano di mettere in piedi fabbriche clandestine.
Quale direzione per l'economia di piano?
Il periodo kruscioviano fu caratterizzato da importanti novità anche sul piano del dibattito economico. Il primo segretario era convinto che le difficoltà economiche fossero addebitabili all'eccessiva centralizzazione del potere decisionale e che fosse necessaria una riforma che decentrasse le responsabilità di direzione dell'economia sovietica, avvicinando gli enti preposti ai luoghi nei quali le loro decisioni si sarebbero dovute applicare.
Il plenum del Comitato centrale del dicembre del 1956 dovette affrontare i problemi relativi al sesto piano quinquennale (1956-1960) e rivederne al ribasso gli obbiettivi. Gli stalinisti cercarono di profittare della debolezza di Chruščёv nel periodo successivo al XX Congresso e proposero un programma di perfezionamento dell'industria ispirato a criteri centralisti. Con questo scontro sullo sfondo si riaccese nel paese il dibattito economico sul ruolo dei prezzi, del profitto e della “legge-valore” in un'economia pianificata. Nelle quattro conferenze che furono organizzate emerse un profilo conoscitivo della materia assai simile a quello della fine degli anni venti, dimostrazione evidente che dal punto di vista delle sperimentazioni e del patrimonio teorico il paese era rimasto fermo per trent'anni. La ricerca di soluzioni agli evidenti problemi economici del sistema condussero alla formazione di tre approcci differenti:
- La visione ortodossa, che difendeva l'esistente e giudicava il piano come una legge da rispettare ad ogni costo. I problemi di malfunzionamento non andavano risolti con riforme economiche ma con misure penali, ovvero tramite la repressione di coloro che non compivano bene il loro lavoro. L'autonomia delle imprese veniva vista come un attacco al sistema. I discepoli di questa scuola economica auspicavano, semmai, una migliore selezione dei dirigenti. Per gli ortodossi l'idea stessa che dentro l'economia sovietica ci fossero interessi conflittuali rappresentava un'eresia;
- La visione intermedia, quella di coloro che ritenevano che le direttive emanate alle imprese dovessero in qualche modo tener conto delle esigenze delle imprese stesse e, al contempo, lasciare alle stesse un certo spazio e stimolarle a far meglio e ad elaborare proprie considerazioni e soluzioni;
- La visione riformatrice che, sulla base di concezioni maturate decenni prima, poteva profittare della relativa tolleranza del periodo e riemergere. Si proponeva di abbandonare l'idea stessa di piano come indicatore per le imprese e di rafforzare queste ultime con una modifica dei meccanismi motivazionali. Questo perché le imprese sovietiche erano spinte a nascondere al centro le proprie reali capacità. Quelle che agivano in attivo sottostimavano i propri risultati per ottenere obbiettivi più agevoli e i relativi premi. Quelle che agivano in passivo li sovrastimavano, per non incorrere in punizioni e per poter chiedere risorse di cui non avevano in realtà bisogno;
L'URSS stava scontando i risultati della stagnazione ideologica e teorica dell'epoca stalinista, nella quale per troppo tempo il sistema smise di interrogarsi su se stesso e sui suoi problemi reali. Questo problema è dimostrato dal fatto che anche le teorie innovative più ardite non facevano altro che riprendere, con timidezza e timore, concezioni già note da decenni agli economisti di tutto il mondo. L'ideologia ufficiale giocava ancora la parte da leone. Questo fatto fu confermato dalle decisioni del governo e del partito in relazione alle politiche di sviluppo. Fu varato un “piccolo balzo in avanti”, che condusse al naufragio dell'esperienza riformista in economia e contribuì non poco a compromettere tutto il quadro dell'esperienza kruscioviana.
La politica dei prezzi: uno snodo delicato
Una cosa per gli acquisti, una vista frequente nell'URSS del 1962. |
- La necessità di accordare sempre nuovi fondi all'agricoltura e pagare agli ammassi prezzi sempre più alti, per evitare che i contadini continuassero a produrre in perdita (un problema che Stalin rifiutò sempre di porsi);
- Un aumento vertiginoso della moneta presente nelle tasche e nei depositi bancari dei cittadini;
- L'eredità staliniana in materia di prezzi, secondo cui questi erano chiamati a scendere periodicamente. Ciò causò non pochi problemi al regime quando si decise ad aumentare i prezzi per attenuare il crescente squilibrio tra domanda e offerta, in quanto ciò produsse l'ira della popolazione;
- Il prolungarsi del blocco dei prezzi di determinati generi di prima necessità e quindi l'incapacità della moneta e dei prezzi stessi di rappresentare le scarsità relative esistenti nel paese. La moneta sovietica divenne un'unità di misura sempre più falsata e falsante, inutile anche per comprendere la situazione e porvi rimedio.
Il regime cercò di frenare l'esplosione della domanda con l'aumento dei prezzi. La decisione fu pubblicata il primo di giugno del 1962 e prevedeva l'aumento del 30 percento per la carne e del 25 percento per latte e burro. In seguito ad un'imprevista coincidenza, quella stessa mattina la tariffa del lavoro a cottimo degli operai della fabbrica di elettromotrici Budënnyj di Novočerkassk (regione di Rostov) subì tagli fino al 30%. L'effetto combinato delle due iniziative mise in moto la reazione operaia. La scintilla che fece esplodere la rivolta fu la risposta data da un direttore di fabbrica. Quando gli operai gli chiesero come avrebbero fatto a vivere lui rispose: “Mangiavate pasticcini di carne, adesso li mangerete con la marmellata”.
Il direttore fu messo in fuga dalle maestranze inferocite. Verso mezzogiorno 11.000 operai erano pronti ad innalzare le barricate. Sugli edifici della fabbrica comparvero parole d'ordine quali “Abbasso Chruščёv!” oppure “Di Chruščёv facciamo salami!”. Gli operai bloccarono i collegamenti ferroviari e le donne si sdraiarono sui binari per fermare i treni. Verso sera le truppe della milizia del ministero degli interni cominciarono a circondare la zona. La mattina del 2 giugno un corteo operaio si diresse verso il centro della città, ingrossandosi per l'arrivo di operai di altre fabbriche e per l'adesione di studenti e semplici cittadini. Si formarono comizi spontanei.
Gli operai occuparono la sede del partito, prontamente abbandonata dai dirigenti locali, e ne usarono il balcone per pronunciare discorsi. Intanto la milizia circondò il centro della città, bloccò tutte le uscite e occupo le sedi di radio, banca e posta. I soldati tentarono di disperdere la folla sparando verso l'alto (pare che alcuni bambini che si erano arrampicati sugli alberi furono per questo uccisi). Poi venne dato l'ordine di sparare sulla folla con proiettili dirompenti. Secondo alcune notizie la prima linea fu subito sostituita perché il capitano preferì suicidarsi piuttosto che sparare sulla folla. Il massacro si consumò nel giro di poche ore e costò la vita a 23 persone. I feriti furono 84.
Quando verso sera comparvero i carri armati gli ultimi ostinati resistenti si dispersero. Sempre il 2 giugno arrivarono in città Mikojan e Kozlov alla testa di una delegazione del Comitato centrale del PCUS. Essi incontrarono una delegazione di operai che senza troppi complimenti ne maledirono l'operato e rinfacciarono ai due dirigenti le condizioni di vita operaie ben poco invidiabili. Pare che fu proprio Kozlov, che secondo la testimonianza dell'ambasciatore americano “mangiava come un maiale” e aveva una grande passione per l'alcol, a chiedere l'uso della forza contro cittadini che avevano difficoltà a reperire carne e altri prodotti di prima necessità. I cittadini di Novočerkassk vennero puniti. I partecipanti ai cortei che furono individuati furono spediti in Siberia con i familiari. Nove uomini furono condannati a morte mentre due donne a quindici anni di campo. Il governo cercò di correre ai ripari sostituendo alcuni esponenti locali del partito e rifornendo di merci i negozi della città.
La repressione fu cosi dura perché i dirigenti temevano che la rivolta si allargasse alle regioni circostanti. Dentro il presidium, dato che Chruščёv fu il bersaglio prediletto degli operai, cominciarono a farsi concreti i dubbi nei confronti di un leader così impopolare. La rivolta dimostrò ancora una volta la centralità della questione dei prezzi nel funzionamento economico sovietico, impartendo ai suoi leader la lezione che toccarli equivaleva a giocare col fuoco.
Epilogo: la decisione di non decidere
Altre rivolte, anche se di minore entità e gravità, scoppiarono in altre località dell'URSS nel 1962 e nel 1963. I prezzi dei generi essenziali non furono praticamente ritoccati fin quasi al collasso del sistema, provocando frustrazione ed impotenza in tutti coloro che avrebbero voluto usarli come leve per mitigare gli squilibri dell'economia. Così il dibattito economico sui prezzi si esaurì senza riuscire a superare quei limiti teorici presenti nelle concezioni e mentalità di specialisti ed economisti, creando un vuoto di idee e competenze che si approfondirà negli anni post kruscioviani.
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